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Jean-ClaudeIzzo VIVERE STANCA

Italiana


Jean-ClaudeIzzo.



VIVERE STANCA.

Titolo originale: "Vivrefatigue ".

Dello stesso autore presso le edizioni e/o:

"Casino totale"

"Chourmo. Il cuore di Marsiglia"

"Solea"

"Il sole dei morenti"

"Marinai perduti"

INDICE.

Vivere stanca.

Aspettando Gina.

Cane notturno.

Falsa primavera.

In fondo al molo.

Al Lume di Luna.

Un inverno a Marsiglia.

Nota sull'Autore.

***

A quelli che amo, e che sanno

quantovivere stanchi

"Sotto il sole non ci sono misteri, soltanto tragedie".

JeanGiono .

I racconti che leggerete sono stati pubblicati in opere collettive o riviste. Alcuni sono stati riscritti per questa pubblicazione. Ovviamente si tratta di storie immaginarie. Se possono far pensare a fatti di cronacaautentici è per pura ironia della realtà. I luoghi sono invece reali, e anche il disgusto che a volte ispira la vita.

VIVERE STANCA.

PerManuèle eThierry

Marion aprì gli occhi. Un rumore l'aveva strappata al sonno. Un rumore sordo. Come un colpo contro la parete.

Chiuse gli occhi, spossata, poi li riaprì.Théo non c'era più, accanto a lei.Ma nel letto il suo posto era ancora caldo. Questo stronzo adesso se lasquaglia, pensò .

Gli occhi si abituarono al buio.Théoera accovacciato, cercava i vestiti sparsi sul pavimento.Lei sorrise, pensando che follia era stata la notte scorsa, rientrando . Quel desiderio di farsi scopare da lui, ancora e ancora. Non avevano fatto nient'altro per tutto il giorno, o quasi.Tranne la passeggiata lungo i moli del porto . Mano nellamano , prima. Poi stretti, il braccio diThéo sulle sue spalle. Da quanto tempo non le era più successo? Quella sensazione di essere amata. Di essere, semplicemente.

"Pensi di squagliartela così?" gli chiese.

Aveva la bocca impastata. Troppo alcol. Troppe cicche. Come sempre. Non riusciva a farne a meno. Doveva stordirsi. Soltanto per credere ai sogni. Convincersi che quel tipo, lì di fronte a lei, non era uncoglione di marinaio che l'avrebbe scopata, in fretta e furia, prima di partire per Buenos Aires, Trinidad, Panama o chissà quale altro paese delcazzo lontano da qui.

"Ho fretta" risposeThéo rialzandosi.

Lei accese la lampada sul comodino. Una fioca luce blu. Stava in piedi, slip in mano. Il sesso, raggrinzito, gli pendeva molle tra le cosce. Marion prese una sigaretta,l'accese , aspirò una lunga boccata senza abbandonare con lo sguardo quel pezzo di carne che penzolava. Lui s'infilò lo slip.

"Di che hai paura?Che ti faccia una scenata ?"

"Non rompere i coglioni!".

Marion le avevagià sentite quelle frasi. Decine edecine di volte. Guardò l'ora. Le cinque e dieci.L'ora in cui non doveva rompere i coglioni . L'ora in cui i marinaisi imbarcano.EThéo come gli altri.

"Credevo avessi una settimana".

"Non rompere ilcazzo ,t' ho detto. Non è il momento".

Si era appena infilatoi jeans. Non la guardava. Era preoccupato per l'ora.Per i calzini che non trovava . Il cargo "StellaLykes " levava l'ancora alle sette. Non aveva tempo da perdere in spiegazioni.

"Avrei potuto farti un caffè".

"Ecosa aspetti, allora?Di', non li hai visti i calzini?".

Lei sorrise di nuovo. Quello, per sbruffone che fosse, non era marcio come gli altri. Sottosotto non era cattivo. Lo aveva indovinato subito. Reagiva ai sentimenti, quel tipo.E al volo, pure. Dopo tanti mesi passati in quel porto dimerda , era il primoa essere stato tenero con lei.

Si ricordò come l'avevaguardata mentre cantava alPerroquetBleu . Gli sguardi degli uomini liconosceva a memoria. Questo, si era detta, non ha solo voglia di scopare.

Aveva attaccato "GarotadeIpanema ", diViniciusdeMoraes eCarlosJobim . L'adorava, la musica brasiliana. Era stato ascoltando MariaBethania , un giorno alla radio, che aveva deciso di diventare cantante. Quanti anni aveva?u ndici, dodici? Non di più. Quindici anni dopo era la star brasiliana delle feste aziendali, dei balli di quartiere per il 14 luglio e dei bar di puttane. Come qui. Per duemila franchi la settimana.

Aocchi chiusi, il microfono tenuto a due mani, vicinissimo alla bocca, cantava per lui. Le venne in mente la versionediEllis Regina, aMontreux .E ce la mise tutta. Senza più preoccuparsi dei musicisti.Cinque incapaci che si trascinava dietro da sei mesi . Non aveva trovato niente di meglio.E nemmeno loro.

Il suo corpo si muoveva appena. Soltanto un movimento lieve delle anche.Un passo a sinistra, un passo a destra . Poi mosse in avanti la gamba sinistra, inarcando leggermente la schiena. La gonna, aderentissima, le risalì sulla coscia. Tutti gli occhi dei coglioni seduti ai tavoli si fissarono su di lei. Lo sapeva.Ce l' avevano tutti duro all'unisono. Le ragazze approfittavano di quel momento per posare la mano sul ginocchio del cliente e farsi offrire un altro giro di whisky. Erano lì per quello.E anche lei. Perarrapare i marinai e farli bere.E svuotare le loro tasche di poveri disgraziati.

Ma sabato sera Marion se nefotteva . Cantava solo per lui. Aveva la faccia dell'attore cheinterpreta un film diWimWenders . Una storiadi angeli. Una bellacazzata quel film. Era rimasta f 121h79b inoalla fine solo per l'attore, BrunoGanz si chiamava. L'aveva letto uscendo dal cine. Quel tipo gli somigliava. Non propriobello, mafigo . Come l'angelo del film, si era detta. E immaginò ilsesso di lui duro quanto il microfono che teneva nelle mani. Lo strinse. A labbra aperte. Unbrivido la percorse.

"Eccolii tuoi calzini" disse.

Si era alzata.In piedi, nuda di fonte a lui, un calzino per mano. Finalmente la guardò. Sei perdutobello mio, pensò.

"Mettiti qualcosa" rispose.

"Ti dà fastidio vedermi ilculo ?".

"Non è per quello...".

Erastronza a fare così.Ma doveva sapere. Si era sbagliata ancora una volta?O quel tipo era diverso?Théo .

Due mesi prima aveva recitato la stessa scenaa un altro.Luis . Unrottinculo di marinaio cileno. Le aveva mollato unasberla che l'aveva rovesciata sul letto. "Ti avevoavvisata di non rompere i coglioni" aveva urlato. Poi aveva sbattuto la porta. Su quellasberla ci aveva rimuginato per due mesi. Senza scopare.Ma era più forte di lei. Ci credeva al'suo' marinaio. Comea una buona stella.

Théoposò la mano sul braccio di Marion. Lo stesso gesto dell'altra sera. Alla fine della prima ora. L'intervallo. Pipì. Coca.E unospinellino . Per ripartire. Ricominciare, slow. Voce sdolcinata eculo tremulo. Era passata davanti al suo tavolo, senza guardarlo. Lui l'aveva presa per il braccio. La stretta era decisa.

"Bevi qualcosa con me?".

"Non bevo con i marinai ubriachi".

"Non sono ubriaco".

"Ritorno" aveva detto.Perché aveva davvero vo glia di pisciare.

Domandò a Mario, al banco, di servirgli da bere. Non il suo whisky schifoso.UnJameson .

"Già sgobbiamo abbastanza" brontolòFlo , "se ti metti pure a rimorchiare...".

"Vaffanculo" rispose. "Quello è per me, OK?".

Avevano bevuto senza parlare.

"Aspettami" gli disse alzandosi.

"Chissà".

"La prima canzone è per te. Dopo,sei libero ".

"Sono libero,comunque .E non ho nient'altro da fare".

Avevaincominciatocon "I Can't Give You Anything but Love".Ancheil jazz le piaceva. Soprattutto SarahVaughan .

Aveva continuato con "SatinDoll ", poi "TeaforTwo ", "Cabaret"...Finìcon "On the Sunny Side of the Street".Théoeraancoralì .Con una bottiglia diJameson davanti.

Le servì unbicchiere quando tornò a sedersi accanto a lui. Tutto sembrava scontato. Lui. Lei.

"Vuoi andare a letto?" le chiese.

"Non sono una puttana".

"Meglio così. Non ho soldi da buttare in puttane".

Avevano parlato, e lei aveva bevuto. I marinai parlano facilmente. Dei loro viaggi. Del mare.Théo parlò della vita. Di sé. Navigava contro la morte. Aveva raccontato tante cose, ma lei si ricordava di quello. Aveva alzato gli occhi suThéo . Il suo sguardo era su di lei. Uno sguardo assente. In quello sguardo si era riconosciuta.

"Sai dove dormire?" gli domandò.

"Da te. Mi piacerebbe".

Nel letto si era rannicchiata contro di lui. La testa sul suo torso glabro. Le era piaciuta la forza e la dolcezza delle sue braccia che la stringevano. Il sesso era diventato duro contro il suo ventre. Si era stretta ancor più a lui.

"Sono stanco" aveva mormorato.

"Anch'io".

Il primo uomo che osava dirlo.Nonostante la stanchezza, nonostante l'alcol, lei aveva voglia di scopare . Due mesi. La mano era scivolata tra le cosce diThéo . Teneva il sesso fra le dita. Duro e dolce. Sentiva che palpitava e lo strinse un po' più forte.

Le ritornò in mente il desiderio che aveva avuto di lui prima, quando cantava.

"Te losucchio, vuoi ?".

"E' che vivere..."d isse piano, come se continuasse a pensare. "Vivere stanca. Non credi?".

"Chedici?".

"Girati".

Sollevò il lenzuolo.

"Théo...".

"Hai proprio un belculo ".

Marion teneva ancora i calzini in mano. Nessuno dei due si era mosso. Gli occhi diThéo erano ancora immersi nei suoi.Duri e dolci, come il suo sesso.

"Non volevo farti questa scena, sai.Ma ... Non avevi il diritto di andartene così.Come se niente fosse ".

Il cuore le batteva forte. Il respiro divenne affannoso. Il seno sembrò gonfiarsi violentemente. Teso verso di lui. Non si era mai sentita così bella. No, non si era sbagliata. Era l'uomo che desiderava. Il suo marinaio. Quello che poteva aiutarla ad attraversare la vita.

C'era stata soloquella menzogna.Perché le aveva mentito a proposito della sua partenza, mentre le aveva detto delle cose così vere? Credeva di 'tenerlo' ed era lui a possederla. Dopo la sua partenza sarebbe statafottuta . Anche se le avessepromesso di ritornare fra un anno o sei mesi. Di tutti i marinai che aveva conosciuto, nessuno era mai tornato. Tutte le promesse muoiono in mare. E in ogni porto del mondouna Marion aspetta il 'suo' marinaio.

Era perdente. Erano tutte perdenti.

Eanche i marinai. I marinai sono uomini perduti. EraThéo che l'aveva detto. Ieri.Mentre passeggiavano . L'aveva portata davanti al suo cargo. Lo "StellaLykes ". Si era sentita infinitamente piccola davanti allo scafo nero.

"Théo" disse.

Elasciò cadere i calzini. Si era sbottonatoi jeans. Le mani, sotto le sue natiche, la sollevarono. Gli strinse le braccia attorno al collo. Ilsesso di lui la penetrò. Così forte che ebbe quasi male, e godette quasi subito. Come lui. La posò dolcemente sul letto, poi si tirò sui jeans. Guardò l'ora.

"Troppo tardi per il caffè" fece, accendendo una sigaretta.

Si sedette accanto a lei. Sfinito. Altrove. Quasi triste. Lei ebbe freddo e si alzò per infilarsi una maglietta. Ritornò verso di lui, ai suoi piedi.

"Ti amo" disse.

Non riconobbe la propria voce. Non conosceva nemmeno quelle parole.

"Tieni" rispose porgendole la sigaretta. "Finiscila, devo partire".

Si alzò, respingendola.

Un uomo perduto, pensò lei. Una donna perduta. Perdere e perdersi, è questa la vita?Di', Marion, è così?

"Quandoritorni?" implorò.

Prese la borsa.

"Non serve a niente sperare. Lo sai, no?".

"Aspetta!" aveva quasi gridato. "Aspetta" ripeté più piano. "Voglio che porti via qualcosa di me".

Lui sorrise. Un sorriso stanco. Rassegnato.

"Sevuoi".

"Chiudi gli occhi".

Frugò nella borsetta. La piccola automatica era lì. Fredda nella sua mano.Un regalo che si era fatta, un giorno . Dopo che un tipo, un brutto porco di tedesco, aveva tentato di violentarla.

Si avvicinò aThéo . Lui aspettava,a occhi chiusi. Non sorrideva più.Si incollò a lui. La pistola puntata sul cuore.

"Théo".

Lui aprì gli occhi. I suoi occhi erano magnifici. Neri e chiari come il giorno che sorgeva.

"Lo sapevo che l'avresti fatto" disse nel momento in cui lei sparò.

"Cosa?" urlò lei.

Maper risposta non ci fu che l'eco degli spari.Théo cadde riverso.E lei su di lui.

Aggrappata a lui.

Il suo marinaio.

Le lacrime sgorgarono.Lei che non aveva pianto da anni . Sembrava che le sue lacrime sgorgassero dal petto diThéo .Là dove era caldo contro il suo petto . "Hai ragione" balbettò in un singhiozzo. "Vivere stanca". Si portò l'automatica alla tempia.E sparò. Questa volta il dito non le tremò.

[Laprima versione di "Vivrefatigue " è stata pubblicata in "Auboutduquai", opera collettiva,EditionsCanaille , Paris, 1996].

ASPETTANDO GINA.

Per Brigitte eJean-Luc

Erano in una pizzeria. DaMichel , inrue d'Aubagne. Giovanni non staccava gli occhi dalla ragazza, la cameriera. Una brunetta, carina da morire.Senza dubbio sugosa come la pizza che aveva in bocca.Tanto per dire che non ascoltava minimamente il suo amico Pepi, napoletano come lui .Insomma sì, ma distrattamente, con l'occhio fisso sui movimenti della cameriera . I loro sguardi si erano incrociati.E Giovanni aveva letto nel suo quello che voleva sapere. Non le era indifferente.

"Oh! Giovanni! Mi ascolti?".

"Certo" disse. "Mi hai chiesto che cosa ho deciso, no?".

"Eallora?".

Pepi gli aveva proposto di andare in vacanza da lui, a San Giorgio.Un paesino di pescatori nei dintorni di Napoli . Da cinque anni, da quando aveva un buon lavoro, Pepi vi ritornava ogni estate con Sandra, la moglie, e i due figli. L'anno precedente Giovanni era andato da Pepi.Per aiutarlo a rifare il tetto della casa di famiglia.

"Promesso" riprese Pepi, "non lavoriamo. Solo dolce far niente...".

"Sandra vuole ridipingere la cucina, mi ha detto".

"La cucina ci vuole poco. Andremo a pesca. Ho comprato la barca del povero Vincenzo".

Pepi attese una reazione di Giovanni.Che non arrivò . Sembrava perso nei suoi pensieri. Pensieri cupi, sileggeva sul suo volto. Pepi non lo capiva. Giovanni aveva tutto per essere felice. Era bello, intelligente, scapolo e tutto gli riusciva bene. "E' come suo padre" diceva Sandra, "tutto quello che tocca diventa oro".

Sandra sapeva di che cosa parlava. Era stataa letto con lui, un anno prima di sposare Pepi. Si ricordava ancora delle mani di Giovanni sul suo corpo. Mai le carezze di un uomo l'avevano resa più bella.Ma Giovanni era un uomo d'amore, non un uomo da sposare. Gliel'aveva detto. Non le faceva paura l'amore, ma l'idea di fallire nella vita. Non costruire niente. Nella vita, quello che le interessava era l'avvenire.

"A me" aveva risposto Giovanni, "non è sposarmi che mi manda in tilt, né fare figli e tutto il resto... è l'amore".

"L'amore?"

"Amare è come partire per la guerra. Non sai se torni vivo".

Sandra si era rivestita in silenzio. In fretta, voltandogli la schiena.Conscia all'improvviso che la sua vita doveva viverla con Pepi.

Giovanni aveva sorriso quando se n'era andata. Nonaveva nemmeno osato chiedergli se l'aveva amata. "Ciao" aveva mormorato.Sdraiato sul letto, era rimasto per ore a fumare, lo sguardo fisso sulla porta che si era tirata dietro . Su loro. Sul loro amore. Unica cosa certa, si era rimesso senza neppure una ferita.O almeno se n'era convinto.

Era successo dieci anni prima.Sandra era sempre così bella, ma non era più una donna desiderabile.Perché adesso era senza desideri . Non come la cameriera che, con un bel sorriso sulle labbra, si fermò al loro tavolo.

"Vi serve niente?".

Un'espressione che Giovanni adorava.

Poi, non sapeva come, né perché, lei iniziò a parlare delle vacanze. Andava in ferie la settimana prossima. Ferie estive. Era la prima volta che il padrone chiudeva la pizzeria. Quindici giorni. Allora aveva intenzione di approfittarne. Pensava di andare in montagna. Sulle Alpi.

"Le piace la montagna?" chiese Pepi.

"Non ci sono mai andata.E a lei?" domandò a Giovanni fissando lo sguardo in quello di lui.

Aveva degli occhi stupendi. Neri. Ardenti.'Guarderà sempre così gli uomini?' si chiese.

"No. Detesto la montagna. Al posto suo andrei in Tunisia".

Aveva scommesso chefosse tunisina. Spagnolano. E di sicuro non italiana. Tunisina.

Lei scoppiò a ridere.

"Sono di lì. Allora tornarci non è proprio come andare in vacanza".

"Peròè meglio che le Alpi".

Forse non sentì, perché era già scappata a prendere l'ordinazionea un altro tavolo.

"Lascia perdere, Giovanni" disse Pepi.

"Cosa?".

"La cameriera. Lascia stare".

"Guarda, francamente, non ho ancora deciso".

"Per la cameriera?".

"Perquest' estate. Venire con voi".

Pepi alzò gli occhi su Giovanni. Sorrise.

"Gina... Ginaha chiesto se vieni".

Egli fece l'occhiolino.

Era proprio quello che preoccupava Giovanni. Gina. Ci pensava senza tregua.Appena diciannove anni. Non aveva potuto resisterle, l'estate scorsa. Il giorno in cui la storia si fosse saputa sarebbe finita male. A San Giorgio non era come nelle grandi città, c'erano ancora dei principi. Si andava a letto soltanto il giorno delle nozze. Si preferivano i matrimoni tra giovani della stessa età.E si diffidava degli scapoli come della peste.

Durante tutto il mese in cui era rimasto in paese, gli uomini avevano guardato storto Giovanni. Poteva diventare l'amante delle loro mogli o, peggio ancora, sverginare le figlie. Sapevano tutti benissimo che l'amore sirealizza pienamente solo nella libertà. La libertà di Giovanni era un affronto.

EGina era la figlia del sindaco di San Giorgio. L'affronto sarebbe stato ancora più grave.

"Non ha detto altro?" domandò Giovanni, preoccupato.

"No. Perché?".

"Così".

"Davvero carina la ragazza, eh...".

Carina non era la parola giusta. Gina era più di quanto Giovannidesiderasse trovare in una ragazza. Le piaceva l'amore per l'amore. Si ricordava dell'ultima volta che si erano incontrati, nell'ovile abbandonato dove si davano appuntamento il pomeriggio. Aveva detto:

"Ci siamo trovati.Ma non risolve la mia vita.Né la tua".

L'aveva detto senza emozione. Freddamente. Del resto aveva sentito un brivido corrergli lungo la schiena. Non aveva mai pensatoa una cosa del genere, a che cosa voleva dire risolvere la propria vita. Pensava che non ci fosse mai soluzione a niente.

La bottiglia di vino era vuota.

Giovanni fece cenno alla cameriera agitandola. Ne portò un'altra. La stessa. C“te deProvence ,ne aveva bevuto di migliori.

"E' un suo amico?" domandò a Pepi.

"Si chiama Giovanni.Adora andare a pescar e" scherzò.

"Io sonoWalissa . Non sono mai andata a pescare".

Stappò la bottiglia tenendola stretta fra le gambe.E Giovanni la guardò fare.

"Si lascia bere, eh?" disse riempiendo il suo bicchiere, poi quello di Pepi.

Giovanni non rispose. Non era colpa sua se il vino non era all'altezza. Per lei eraper forza buono .Visto che prendevano un'altra bottiglia . Sorrise. Era già pronto ad accettare i limiti della ragazza.

Walissadovette indovinarlo. Giovanni sentì la sua mano sfiorargli la spalla prima di allontanarsi.

Sapeva che gli avrebbe domandato, dopo: "Mi ami?".E avrebbe detto sì, come sempre. Aveva detto sì a tutte le donne dopo che Sandra se n'eraandata. Da allora, quante volte si era trovato in quella situazione? Svegliarsi in un letto accantoa una donna che non conosceva e iniziare con lei la routine della giornata: darle appuntamento o trovare delle scuse per non farlo.

Si sentì di colpo triste.

"Pensi a lei?" domandò Pepi vedendolo sorridere.

"Alla cameriera?".

"Mano! A Gina".

Era entrata nell'ovile senza aspettarlo. Si era voltata verso di lui davanti alla porta.

"Ho voglia di te".

Aveva detto solo quello, quando la mattina l'aveva incrociato sulla piazza del paese.Solo quella frase , lentamente, come per lasciargli assaporare ogni parola.Eppure non le aveva mai rivolto la parola. Ginaera la figlia del sindaco, lo sapeva .

"Sul sentiero d'Aurive, dopo pranzo. Cisarò" aveva aggiunto.

Non aveva dimenticato quella volta. La prima volta. Gina si spogliò davanti a lui, con la stessa lentezza con cui gli aveva parlato.

"Dovrebbe essere sempre così semplice andare a letto con qualcuno" aveva detto raggiungendola, nudo anche lui.

Lei aveva riso. Le sollevò i capelli e la costrinse a mettersi di profilo. Guardò la curva dei fianchi.Anche lei si spostò per guardarlo, come per vedere tutto di lui. Poi si sdraiò sulla schiena, le gambe leggermente divaricate.

"Sì, è semplice, tu e io".

Aprì ancora le gambe, poi fecescivolare le mani intorno al sesso.

"Prendimi, ora".

Lui aveva paura. Per la prima volta.

"Suo padre" riprese Pepi, "mi ha detto che nonsarebbe contrario, se vuoi sposarla.Nonostante la differenza d'età. Sa che la tua situazione è buona".

Giovanni alzò le spalle.Quello che esisteva tra Gina e lui non apparteneva all'ordine delle cose umane . Era la guerra. La guerra dell'amore. I loro corpi sarebbero giunti allo sfinimento.Finché uno dei due avrebbe ceduto, acconsentito . Abdicato. In fondo c'era la morte.Perché abdicare gli era insopportab ile.

"Lascia perdere, Pepi".

"Cazzo, quanto sei complicato!".

No, era tutto 'cosìsemplice' . Aveva letto da qualche parte che esiste una teoria secondo la quale l'uomo vive in uno statodi instabilità che con gli anni si stabilizza sempre più, finché raggiunge l'equilibrio, cioè la morte.Quell' equilibrio Giovanni lo desiderava più di qualsiasi altra cosa, subito. Era nel corpo di Gina. Lei lo sapeva. Era simile a lui.

Un pomeriggio lei portò un pacchetto nell'ovile.

"Checosa hai comprato?".

"Un coltello".

"Per far cosa?".

"Niente. Non so perché, ma ogni volta che compro qualcosa, poi diventa utile. Un giorno o l'altro".

Aprì il pacchetto e gli mostrò il coltello. Uno splendido coltello a serramanico con l'impugnaturadi osso.

"E' un tipo diLuvaria che li fa. Dovresti comprartene uno".

"Perché?".

Alzò le spalle.

"Forse un giorno lo saprai".

Aveva riso. Avevano fatto l'amore.Ma Giovanni non aveva comprato il coltello dal tipo diLuvaria , un mattino che era andato a vederlo lavorare.

"Volete un dolce?" domandòWalissa .

"Per me un caffè".

"Abbiamo del tiramisù. Fatto in casa".

"E' ottimo" disse Pepi, che era un habitué.

"D'accordo" acconsentì Giovanni. "Tiramisù e caffè".

"Ancheper me".

Giovanni, lo sai benissimo, sidisse sorridendo aWalissa , è davvero idiota correre dietro a questa ragazza.Ma adesso si sentiva bene, ogni volta che si avvicinava la desiderava. La desiderava in quel preciso istante.Con l'odore di sudore, di sigarette, d' olio d'oliva e di pizza che impregnava i loro corpi.

I suoi occhi incontrarono ancora quelli diWalissa . Era sua. Non doveva che allungare la mano.E non avrebbe cambiato niente rispetto all'appuntamento fissato l'estate scorsa da Gina.Perché nella vita prendeva sul serio soltanto l'amore.

Sorrise ancora una volta, stupidamente, quando lei tornò con il conto.

"Lascia, offro io" disse Pepi.

"Allora, queste vacanze?" domandò Giovanni. "Sempre sulle Alpi?".

Lei rise.

"Credo che starò qui. A Marsiglia. Non conosco nessuno che va in montagna.E non mi piace partire da sola...".

Giovanni immaginò l'odore del caffè e lei,Walissa , che gli accarezzava i capelli con il gesto di qualcuno che è stato assente per tanti anni.Ma quello era un altro sogno.

Walissae lui.

Poteva inventarsi una felicità con lei, unafelicità in fretta, ma per sempre. Ogni amore, pensò, si porta dietro menzogne e verità.E ogni volta un pezzetto di menzogna di una storia d'amore incontra un pezzetto di verità di un'altra storia d'amore. Si uniscono, una e l'altra.E ad altre ancora, e...

Negli occhi diWalissa c'era già quella speranza.Di una felicità possibile, intessuta di verità e di menzogne . Una felicità semplice.

Era in piedi davanti a lei.E lei aspettava una parola di Giovanni. Non li separavano neppure dieci centimetri. Pensò che il desiderioera un brutto figlio di puttana, non sempre degno di fiducia.

Lei si passò la mano nei capelli. Un sorriso imbarazzato sulle labbra. Era a disagio.

"Allora, buone vacanze" disse Giovanni.

Lasciò Pepi davanti al ristorante, promettendogli di telefonargli presto. Poi si tuffò inrueLongue-des-Capucines . Nella folla. Negli odori della sua città.

Pensò infine al coltello che Gina teneva in mano. Lo teneva dritto davanti a sé, le dita strette intorno al manico come se stringesse il suo sesso. Con piacere. Sì, aveva appuntamento con lei. Con il suo corpo. Con la lama del coltello. La sentiva come se già penetrasse in lui, in tutta la sua lunghezza. Cinque dita, l'aveva misurato.

Le lacrime scorrevano sulle guance di Giovanni. Stava singhiozzando. Le donne, la sporta sotto il braccio, lo guardarono con tenerezza, ma nessuna ebbe il coraggio di soccorrerlo.

[Laprima versione di "Dansl'attente de Gina" è stata pubblicata in "Méditerranée magazine", luglio-agosto 1997.]

CANE NOTTURNO.

Erano in due. Un ragazzo e una ragazza. Lei si avvicinò e chiese a Gianni se aveva da accendere.

Un attimo dopo non sapeva che cosa gli stava succedendo.O quasi.Perché, prima che succedesse, Gianni alzò lo sguardo su di lei . Sulla ragazza. Una croce uncinata appesa al collole si infilava tra le tette.

Belletettone , aveva pensato.

Solo quello.E anche che aveva gli occhi verdi . Un verde sporco,piscioso .

Poi guardò il tipo che stava con lei. Cranio rasato. Giacca mimetica. Unoskinhead .Un metro e ottanta , o quasi.E largo come un armadio. Poi, di nuovo, Gianni guardò la ragazza.

Fare a botte non gli faceva paura. La violenza, Gianni la conosceva. Era stata la sua ragione di vita per anni, in Italia. Proletari armati per il comunismo. "Un sovversivo dichiarato" aveva detto il giudice. "Un criminale".Ma in seguito aveva preso le distanze dal terrorismo. Un'altra vita, in Francia, dopotanto vagabondare. Con moglie e figlio. Un lavoro da traduttore.E uno status di 'politico' che non lo autorizzava a tornare in Italia . Non l'autorizzava nemmeno a fare a botte.E a tante altrecazzate .

"No" si sentì rispondere.Mentre tirava sulla cicca, unaLucky Strike che aveva appena acceso uscendo dal metròRéforme-Canebière .

"Fai il furbo eh, brutto stronzo!" sghignazzò loskinhead .

Edicendolo fece schioccare le dita.

Il corpo di Gianni si era irrigidito. Pronto a difendersi. Non staccava gli occhi dalloskinhead .Sicuro che avrebbe fatto qualcosa . Un pugno. Una testata. Li conosceva, queglistronzi .

Lasciò cadere la cicca e, mentalmente, si assicurò della posizione dei piedi.

Loskinhead era più alto di lui di almeno una spanna. Più muscoloso.E anche più pesante. Gianni si disse che doveva colpire per primo.Ma aspettò. Forse poteva evitare di fare a botte con quel tipo.

Aveva fretta di tornare a casa.Fabienne lo aspettava. Il bambino era dalla nonna.Fabienne e lui sierano promessi una festa da innamorati.Untˆte-à-tˆte di quelli in cui si dimentica la coppia per ritrovarsi come amanti . Non aveva mai amato comeamavaFabienne .

"Tzz,tzz ..."f ece la ragazza fra i denti.

Gianni le lanciò un altro sguardo. Aveva qualcosa del serpente. Corpo magro, tutto in altezza. Volto stretto, senza labbra o quasi. Solo il seno faceva di lei una femmina.

Non si muoveva, nemmeno lui.

Nessuno si muoveva.

Ci fu un silenzio pesante. Denso come l'eternità. Poi loskinhead fischiò. Semplicemente. Come si fischiaa un cane.

Gianni sentì il colpo nella schiena. Violento.Come se i polmoni si vuotassero . Gli mancava l'aria per reagire. Il peso del cane lo paralizzò. Incollato addosso, le zampe sulle spalle. Gianni cadde a terra.

Cercò di rotolare sul fianco. Invano. Il cane lo teneva fermo. Ringhiava, il muso sul suo viso.

Gianni non si mosse.

Quei cani, i cani lupo, liconosceva . Cani da guardia del capitalismo, si diceva allora. Cani da sbirri. Da fascisti. Da paure borghesi.

Chiuse gli occhi. Per riprendere fiato. Calmarsi.

Doveva calmarsi.

Si era fattoinculare .

La vita gli sfilava davanti.Meno di un minuto per rivederequarant' anni di galera . Fino aFabienne .Fabienne e l'amore.Fabienne e il bambino.Fabienneche lo aspettava, sorriso sulle labbra.

La bava del cane gli colava sulle labbra. Riscoprì la voglia di sputare. La prima volta aveva sputato su uno sbirro, durante un interrogatorio.Ma non sputò sul cane. Attese. Si disse:'E' questa la mia nuova vita? Accettare l'umiliazione di questirottinculo diskinheads ?'.

Voglia di fare a botte. Di uccidere.

Non si mosse. Attese. Chiuse gli occhi.

A Marsiglia era come a casa sua. In famiglia, quasi. Tutto gli parlava come nella sua lingua natale. Viveva in quella città con la certezza che l'impossibile non sarebbe mai accaduto. Poco a poco aveva disimparato tutte le norme di sicurezza che gli avevano insegnato. Dimenticato le paranoie.Qualcuno che cammina dietro di te per la strada .Una lettera che ti arriva aperta . Una donna che si scusa al telefono di aver sbagliato numero...Tutto quello.

Era diventato un uomo normale. Con una donna normale. Un figlio normale. Un lavoro normale. Soldi guadagnati normalmente.E sonni tranquilli, finalmente.

Riaprì gli occhi. Il cane era su di lui come in posizione di ferma.

La ragazza si accovacciò e frugò nelle tasche del giubbotto di Gianni. Trovò l'accendino. UnDupont .Regalo recente diFabienne , per il suo compleanno.

Accese la cicca e simise l'accendino in tasca.

"Vedi chece l' avevi da accendere, brutto stronzo!".

Gianni non rispose.

Pensò che qualcuno avrebbe finito per vedere cosa stava succedendo, lì sul marciapiede, a due passi dal metrò.Ma la gente entrava e usciva senza guardare verso di loro. Verso di lui. Sperò perfino di veder arrivare una macchina di sbirri.

Non la vide.

Poteva contare solo su se stesso.Anche quello l'aveva disimparato. Contare solo su se stesso. Riunì tutte le sue forze. Muscoli tesi. Fare un balzo. Rotolare. Muoversi. Qualsiasi cosa.

Main fretta.

La ragazza era ancora accovacciata accanto a lui. Tirò un'ultima volta sulla cicca. Poi, con un gesto brusco, la spense sulla fronte di Gianni.

Lui urlò. Il cane ringhiò più forte.

Lei si alzò.

"Andiamo" disse al compagno.

"Attacca!" gridò lui.

Eil cane addentò il collo di Gianni.

[Unaprima versione di "Chiendenuit " è stata pubblicata in 200 copie dalla libreriaUrubu diValence nel 1996].

FALSA PRIMAVERA.

PerGodeleine eJean-Paul

Osmansi sedette sulla panchina. Da un mese, veniva a sedersi tutti i giorni sulla stessa panchina. A volte, quando qualcuno la occupava, continuava a camminare per il parco. Camminava finché sulla panchina si liberava un posto. Un giorno aveva fatto sette volte il giro del parco.Due ore a girare, mani dietro la schiena.

Eppurequella panchina non aveva niente di speciale. Ce n'erano tantissime uguali nel parco e, senza dubbio, in tutti i parchi di Marsiglia.MaOsman aveva deciso che quella era la sua panchina. Era così, semplicemente.

I primi giorni in cui era venuto a vagabondare qui, al parcoBorely , aveva constatato che ognuno sembrava avere il suo posto abituale.I vecchi, le donne sole, le madri di famiglia con le carrozzine . Le persone della stessa panchina discutevano fra loro, come in famiglia. Insiemeridevano , e a volte si baciavano prima di lasciarsi.

"E' libero?" aveva domandato la prima volta.

La giovane donna dava il biberon al neonato. Aveva alzato gli occhi su di lui.

AOsmanpiacquero i suoi occhi e il suo sorriso. Così dolci. In città, in genere incrociava altri sguardi. Più duri. Ostili.Lo sapeva, non dipendeva soltanto dal suo aspetto - come tanti altri dal reddito modesto, si vestiva al mercato dellaPlaine : pantaloni di tela a cinque franchi, camicia a quadri dai colori vivaci, tre per dieci franchi - ma da quello che era: operaio immigrato, anzi più esattamente immigrato disoccupato.

"Credo di sì".

"Grazie" aveva detto.

Esi era seduto, intimidito, sul bordo della panchina.

Solo molto tempo dopo si era lasciato andare, sedendosi comodamente nella panchina.Facendo lentamente scivolare le natiche ogni volta che incrociava e apriva le gambe .A un certo punto la giovane donna gli aveva lanciato uno sguardo diverso e aveva avuto paura che avesse paura di lui.

"Si sta bene qui" aveva detto. Per dire qualcosa di tranquillizzante.

"Sì".

Poi lei aveva gridato aMarius eAntonin , gli altri due figli, che si divertivano a tirare la terra sui piccioni. Erano dei bei bambini. Il figliodiOsman aveva appena compiuto cinque anni. La stessa età, o quasi, del piccoloAntonin . Si chiamavaGulnur .Anche lui era bello.Antonin era corso goffamente verso la madre eOsman aveva pensato aGulnur che non aveva visto crescere.

Aysel, la moglie, non aveva dettoniente quando le aveva annunciato la sua partenza. Del resto non aveva niente da dire. ABilcenik , il suo paese in Anatolia, era l'ultimo uomo ditrent' anni. Erano partiti tutti. Tutti mandavano alle famiglie di che vivere ogni settimana.E sarebbero tornati un giorno con le tasche piene. Quel giornoGulnur aveva compiuto un mese. Non l'aveva più rivisto da allora.'Hai un belfiglio' scrivevaAysel . MaOsman non riuscivaa immaginarselo quel figlio.

Osmanallungò le gambe. Si guardò intorno. Adesso conoscevaper nome quasi tutti gli habitué del parco e delle panchine, anche se nessuno di loro gli rivolgeva la parola. Si nutriva delle vite degli altri, delle storie che sentiva.

Jocelyne, la giovane mamma, era l'unica a dividere la panchina con lui.Almeno quando c'era seduto lui . Dopo, altre persone la occupavano.Un'altra madre di famiglia, più vec chia diJocelyne , e una signora che avrebbe potuto essere sua madre.

Osmanse n'era accorto un giorno che era tornato indietro, un quarto d'ora dopo aver lasciato la panchina. Alla fermata dell'autobus si era reso conto di avere dimenticato il sacchetto con il pranzo.Un pomodoro, un frutto, un pezzo di pane, a volte un pezzo di pecorino . Non voleva che gli rimproverassero di non avere buttato i rifiuti in uno dei cestini verdi del parco. Il sacchetto di carta, appallottolato, era per terra accanto alla panchina. Senza dubbio spinto dalla vecchia signora.

"Mi scusi" aveva detto tirandolo su.

La vecchia non l'aveva nemmeno guardato. L'altra mamma neppure.Jocelyne aveva sorriso. Gliaveva sorriso, pensò .E da allora, anche se non osava iniziare una conversazione, si affezionò alla giovane donna.

Passavano i giorni,Osman si eraazzardato a parlare conMarius eAntonin , a giocare con loro. Rinunciava sempre più spesso a comprarsi un frutto per avere in tasca qualche caramella. Ai bambini piacciono le persone che offrono caramelle. In tutti i paesi.

"Posso darglieli?"aveva chiesto aJocelyne mostrando due grossi lecca-lecca .

Era ieri.

"Sì, se vuole".

MariuseAntonin erano contentissimi.

"Come si dice?" avevadettoJocelyne .Osman aveva avuto diritto a due grazie e adue baci. La prima volta in cinque anni che un bambino lo baciava Gli si scaldò il cuore. Non tuttoèfottuto , pensò .

Ela sera, nel suo appartamentino ammobiliato dirueConsolat , ricominciò a sperare.A credere che avrebbe trovato un lavoro .A sognare cheAysel eGulnur avrebbero potuto infine raggiungerlo a Marsiglia . Si era addormentato immaginandosi con loro al parcoBorely , tutto felice di presentare ben prestoAysel aJocelyne ,Gulnur aMarius eAntonin .

Sì, sarebbe successo così.

C'era un bel sole, quel giorno. Un bel sole primaverile. Aveva mangiato una fetta di pizza, comprata da un ambulante vicino alla spiaggia, e si era appisolato pensando in che modo avrebbe fatto venire la famiglia.

Non sapeva come. Lui era entrato clandestinamente in Francia, dalla frontiera italiana. Attraverso le montagne. Aveva pagato, molto caro, un tizio che l'aveva abbandonato per strada.Ne aveva pagato un altro aVentimiglia . Unbrav' uomo, quello. Un vecchio contadino.Ma non immaginavaAysel eGulnur fare altrettanto. Tutta una notte di marcia su sentieri scoscesi e, per finire, una mulattiera che si arrampicava in una gola buia finoa una pietraia.

No. Per loro sognava un treno e un visto da turisti. Ma potevano avere dirittoa un visto turistico per andare a trovare qualcuno che non aveva nemmeno il permesso di soggiorno? Doveva andarea informarsi da qualche associazione che si occupava di loro, dei clandestini.E chiedere come poteva fare perAysel eGulnur .

Aprì gli occhi e videJocelyne e i bambini che stavano arrivando. Un uomo li accompagnava. Lei indicò con il dito la panchina.EOsman . Gli vennero incontro.Jocelyne nongli sorrise quando arrivarono di fronte a lui.

"'giorno" disseAntonin .

"Porta via i bambini" disse l'uomo aJocelyne .

"Non ha fatto niente,Georges " risposeJocelyne . Timidamente.

"Va', ti hodetto!".

Jocelynesi allontanò, gli occhi bassi sulla carrozzina che spingeva con rabbia.Marius eAntonin la seguirono, voltati versoOsman .

Osmansi era alzato.

"Sono il marito".

"Buongiorno" disseOsman , porgendo la mano.

Lo sguardo diGeorges era di quelli che non piacevanoaOsman . Non c'era posto per lui in quello sguardo.Né nella vita, nemmeno su una panchina di un parco.

La manodiOsman rimase nel vuoto.

"Ti piacciono i bambini, pare".

"Sì, signore.E i suoi sono molto belli".

"Brutto porco!" gridòGeorges .

E con il ginocchio diede un colpo violento sui coglionidiOsman .

Il dolore lo piegò in due. Un pugno lo risollevò. Si accasciò a terra. Ansimava. Come aveva ansimato sul colle per passare la frontiera.

"Ha un indirizzo a Marsiglia?" gli aveva domandato ilcontadino quando si erano fermati per riprendere fiato.

"Me la caverò" aveva rispostoOsman .

Da allora se l'era sempre cavata. Prima a Tolone. Poi lì, a Marsiglia. Da solo. Un po' troppo fiero, forse.

Un calcio nel fianco lo sollevò. Attorno a lui fece buio. C'era gente. Ebbe voglia di sorridere. Di dire buongiorno. Di scusarsi. Un errore, era stato unerrore . Era spiacente di avere turbato la calma del parco.

"Ha rotto le scatole ai miei bambini" disseGeorges mollandogli un altro calcio.

"L'ho visto anch'io" disse una voce di donna.

"Tutti pedofili questi arabi dimerda ".

Aocchi chiusi,Osman cercò disperatamente un'immagine diGulnur . La sola che gli venne era quelladiAntonin . Gli sorrideva.

"Antonin" mormorò.

All'improvviso fual di là del dolore. I calci lo mitragliarono su tutto il corpo. Sembrava che tutti ci si fossero messi. Si accanivano su di lui. L'ultimo colpo gli sembrò davvero l'ultimo.Ma non poté verificarlo. Gli era esplosa la milza.

Non sentì neppureAntonin chiedere aJocelyne :

"Mamma, perché il signore è cattivo?".

[Laprima versione di "Fauxprintemps" è stata pubblicata sulla rivista "Viva", novembre 1997].

IN FONDO AL MOLO.

PerMarie-Hélène

PerGérard imoli erano tutta la sua vita. Aveva vissuto sempre lì.Inquai de laJoliette , sopra al bar l'Espérance .E lì aveva lavorato. Come suo padre. Scaricatore.

Scaricatore.Gérard non voleva più ricordare quegli anni. Non stasera.Perché stasera era troppo tardi . Lo sapeva. Anche se non sapevacome era arrivato fino a quel punto, a toccare il fondo, mordere la polvere. L'aveva fatto sorridere sentireVigouroux , l'exsindaco , dichiarare: "Anche se c'è stata la cassa integrazione, non conosco un solo scaricatore che sia stato ridotto a mendicare".Era quattro anni fa e non aveva torto. OggiGérard ne conosceva uno: era lui.

Certo, non chiedeva l'elemosina come i giovani che vedeva sul metrò o davanti agli uffici postali. Lui aveva ancora qualche soldo per mangiare e bere un paio dipastis daJeannot .

"Oh! Mi ascolti?".

"Porca puttana,Jeannot !Checazzo me ne frega della nuova Alfa . Sono macchine che né tu né io cipotremo mai permettere".

"Vaffanculo! Tanto per parlare, no?".

"Toh, servici!".

Doveva rincasare, andare a letto. Aveva in corpo la dose per dormire. Anzi, stasera oltre la dose. Guardò l'ora. Le dieci edieci . Era lì da due ore e più.

"Già le dieci" disse stancamente.

"Perché?Hai un appuntamento?" scherzòJeannot .

"Stronzo!".

Appuntamentine aveva avuti.Quando aveva ancora tutta la paga . Si faceva quindicimila franchi. Capirai,mica male . Le donne gli cadevano fra le braccia. Le portava daLarrieu , all'Estaque.O daFonfon , quando voleva davvero fare colpo . Preferiva le false bionde.Fonfon , alVallondesAuffes , funzionava a meraviglia con le donne. Sognavano tutte di posarci le chiappe. Dopo, colpo di grazia alSondesguitares , inplace de l'Opéra. Baby andbaby . Servizio completo.

Era la bella vita.

"Quindicimila sacchi mifacevo . T'immagini!".

"Io non ci sono mai arrivato. Dieci al massimo.E a sgobbare ci andavo alla stessa ora tua".

"Mava',Charles ! Dietro al banco...Sgobbare non sai cosa vuol dire. Il porto...".

"E'tutt' altra cosa, lo so. Grazie. Ciò non toglie che, tutto 'sto tempo...Adesso mi faccio seimila e sono contento".

"Di questo passo, domani metti la chiave sotto lo stuoino. Ti rimarranno solo gli occhi per piangere,Jeannot ".

"Ma checazzodici ? Domani qua sarà pieno di turisti.Mica i negri no, quelli con la grana . Tedeschi, americani, giapponesi...".

Il nuovo sogno. Il porto ristrutturato.Le crociere di lusso che fanno scalo a Marsiglia . Non si parlava d'altro.Davanti a noi, un gran porto turistico . All'Estaque, uno di diporto. Come lochiamavano in Comune? Il piano di rilancio.Gérard l'aveva letto sui giornali, l'anno scorso. Come tutti. A dire il vero adesso, con tutti queipastis , non si ricordava più tanto bene.Ma si ricordava che fra tutti i provvedimenti previsti non ce n'era uno che riguardasse loro, gli scaricatori. Soltanto sviluppo perle aziende, politica fondiaria e immobiliare, settori chiave, turismo, commercio.E comunicazione. Sì,per essere più attrattivi bisognava comunicare.Gérard l'aveva trovato buffo. Pagare la gente per parlare del lavoro degli altri!

"Il lavoro non è attraente...".

"Cosa?".

"Oh!E poi dici che sono io che non ti ascolto!".

"Beh, lavoro non ce n'è più. Allora...".

"Eio ti dico che quando c'è, bisogna difenderlo. Punto e basta.E non rompere i coglioni! Come ha dettoGilbert , quando siamo arrivati c'erapane e companatico. Beh, ci dovrebbe essere la stessa cosa per chi arriva adesso".

Scaricatori. Sì, avevano lottato. Per il posto di lavoro.E per il porto. Nello scetticismo più completo. Per non dire nell'indifferenza generale.

In quegli ultimi anni era prevalso il parere delle élite della città. Di chi aveva il diritto di esprimersialla tele e sui giornali. Leitmotiv: il porto sta morendo. Peri media era diventato un best-seller. Stesso successo delfumettoneOlympicMarseille-Valenciennes !E la colpa era sempre la loro, degli scaricatori. "E' aberrante uccidere così la gallina dalle uova d'oro.E tutto per colpa di mille, millecinquecento persone" . Gli scaricatori.

QuandoGérardera giovane, quando era stato ingaggiato per la prima volta, alle cinque e mezza del mattino, gli scaricatori rappresentavano l'avvenire della città. Oggi, quando diceva scaricatorefuori dal quartiere dellaJoliette , capiva che la gente pensava: beccamorto. Dal 1982 al 1987 avevano liquidato quattrocento scaricatori.E poi c'era stata la 'catastrofe' del '92. Avevano messo alla porta i vecchi.Quelli che ci sapevano fare . Come lui.

Un bel giorno non avevano più avuto bisogno diGérard . Dopo quindici anniallaIntramar come controllore.Non abbastanza flessibile, ecco che cosa gli avevano detto alla società di trasporti . Non abbastanza flessibile. Pecora nera. Beccamorto del porto.

"Non è più come una volta" disseJeannot , tanto perdire qualcosa.

Eservì un altro giro dipastis . Come glidiceva Lulù prima di tagliare la corda, "finirai per bertelo tutto il tuo bar!". Sì, le avevarisposto . Meglio che me lo beva io, piuttosto che le tasse!

"Dài, stronzo! Tu mica avevi un pontecon quellecazzo di macchine che ti passavano sopra la testa. Porca puttana!".

Le finestre diGérard , invece, davano sul ponte.Quando apriva le imposte aveva il naso sulle macchine. Del resto era un bel pezzo che non apriva le imposte. Ma adesso non glienefotteva più niente. Domani, o dopodomani, sarebbe sbarcato un ufficiale giudiziario a sbatterlo fuori.In mezzo alla strada, il poveroGérard . Erano mesi che non pagava l'affitto. Eh,cazzo !p agare per un buco in cui non posso nemmeno aprire le finestre! Si era detto così, una notte.E da allora l'affitto se lobeveva . Birra,pastis ,rosé ;birra ,pastis ,rosé . In due riprese.Come quando aspettava di essere ingaggiato .Tranne che aveva cambiato gli orari . Prima era alle 5.30 e 12.30, adesso 10.30 e 18.30. Birra,pastis ,rosé . Birra,pastis ,rosé .

"Credi che lo toglieranno il ponte?".

"Tutto...toglieranno tutto. Lapassarella ,il J3, il J4, i marocchini, te, il bar... Un giorno ti svegli e non sei più a casa tua. Sarà Nizza, formato più grande, e ancora piùcazzuta !E come premio un sindaco del FrontNational ".

Jeannotsi fece pensieroso. Non immaginava una cosa del genere, assolutamenteno. Non poteva.E di colpo nella sua testa ilpastis da giallo divenne grigio.

"Sì..."d isse tristemente.

"Cosa, sì?".

"Dovresti andare a casa,Gérard .Chiudo, mi sa ".

Per strada,Gérard si accese una sigaretta e fece qualche passo traballante. Fino alla porta di casa. Sentì cadere la saracinesca diJeannot . Come una mannaia. Sulla loro vita, la sua e quella diJeannot .MaJeannot non se ne rendeva conto. Viveva di speranze,Jeannot . Da sempre.Neppure quando Lulù se l'era squagliata portandosi via la bambina si era disperato . La vita continua, aveva detto.MaJeannot aveva il bar. Lui,Gérard , non aveva niente. Nemmeno il ricordo di una donna che gli avesse messo le corna.

Pesantemente, posò ilculo sul gradino davanti alla porta per fumarsi la cicca. Per riflettere. Tutti quei pensieri gli ronzavano in testa da ormai troppo tempo.E ogni volta che intravedeva una soluzione ai suoi problemi, la mannaia gli cascava addosso. Come la saracinesca diJeannot .

Quella notte deciseche il mattino dopo sarebbe andato a trovareGilbert , al sindacato. Avrebbe potuto aiutarlo, dargli un consiglio, qualunque cosa, anche solo una parola, tanto per sentire qualcosa di diverso dallecazzate diJeannot .E dalle sue. Lecazzate chesparava mano a mano chebeveva . Lecazzate cherimuginava nella sua zucca dimerda . Le peggiori. Era per via di tutte quelle idee delcazzo che aveva voglia di parlare conGilbert . Non per l'ufficiale giudiziario.Quando hai avuto i celerini alle calcagna, gli ufficiali giudiziari non ti fanno né caldo né freddo.Se la sarebbe cavata .Aveva ancora un po' di soldi, quei coglioni avrebbero aspettato. Ancora un po'.E poi,cazzo !Se non avesse funzionato, sarebbe andato a dormire daJeannot . Nel bar. Tanto, di notte non chiudeva più occhio. I pensieri, le macchine. Nemmeno con ventipastis e due bottiglie dirosé ciriusciva .Cosa credi, aveva provato di tutto.

Si alzò. Non era andato a trovareGilbert . Nonaveva senso, si era detto. Ormai era soltanto un ubriacone. Cosa si poteva direa un ubriacone?E poi al sindacato era un pezzo che non ci metteva piede. Dallo sciopero del '93. Un bel pezzo. Allora, che senso aveva sbarcare all'improvviso nell'ufficio diGilbert ?

Attraversò la strada e risalì tranquillamente fino alla stazione dellaJoliette . All'ingresso del molo fece un cenno di saluto al guardiano.Ed entrò nel porto. A casa. Cominciavano a conoscerlo.Gérard veniva spesso a bighellonare sui moli, di sera o di notte. Soprattutto d'estate. Non gli piaceva dormire con le finestre chiuse.E quando le finestre erano aperte era come se le macchine gli entrassero da un orecchio e gli uscissero dall'altro.

Gérardcosteggiò i bacini.Senza lanciare nemmeno uno sguardo sui traghetti . Aveva un'unica idea in mente: risalire finoal J4. Passando, constatò che l'interno dell'hangar J3 era completamente demolito. Ben prestola dinamite , pensò. La torredel J4 si avvicinava. Marsiglia voltava pagina sulle ore di gloria delle grandi compagnie transatlantiche.Che cosa ci avrebbero costruito sopra, dopo? Nonne aveva la più pallida idea. Soldi, questo era certo. Non c'era altro checontasse , ormai. La grana. Ognuno se ne riempiva le tasche.Gli ideatori, i promotori, i costruttori, i comunicatori...

Maforse avrebbero aperto il porto ai marsigliesi. Finalmente.E aquell' idea sorrise teneramente. Era il sogno di tutti. Vecchi, bambini. Avevano fatto un sondaggio. Il 94% della gente era favorevole all'apertura del lungomare. L'attuale sindaco si era impegnato di fronte al consiglio municipale. "Pursalvaguardando l'attività economica" aveva precisato. Certo. C'era sempre qualcosa da salvaguardare.Da salvaguardare contro la gente che voleva sempre troppo, che protestava sempre troppo, che sognava sempre troppo . Come se fossimo porci, capaci di mangiare tutto.

"Non siamo mica porci!" sbraitò nella notte.

Erise da solo. Tanto, aprire il lungomare era la pillola per far ingoiare il resto.Tutto quello che avrebbero dovuto beccarsi . I progetti erano pronti, nelle loro scatole di cartone. L'aveva letto di nuovo stamattina sul giornale. Nel porto è tornata la calma.E anche a Marsiglia, da domani.Avrebbero finito di ridipingere le facciate delle case, il gioco era fatto. Marsiglia sarebbe stata bella, pulita, nuova.

Un'altra città. Un'altra vita.

Si sedette in fondo al molo. I piedi ciondoloni sull'acqua.Il J4, dietro di lui, innalzava la sua silhouette scura e grigia. L'ultimo fantasma della città.Gérard non era nostalgico. Soltanto triste.E stanco. I sogni della città non combaciavano più con i suoi. Per la prima volta, si sentiva straniero a casa sua. Sui moli.E quindi nella vita.

Buttò la sigaretta in acqua, dopo aver tirato una lunga boccata che gli bruciò le dita. Era una bella notte d'autunno, porca puttana!L'odore che saliva dal mare era il piùbell' odore che conosceva .E quella sera era particolarmente buono. Un gabbiano passò sopra di lui, gridando.

Gérardsi tuffò. Non sapeva nuotare. Non aveva mai saputo nuotare.

AL LUME DI LUNA.

PerVéro eCédric ,

Régi,Mathieu eFran‡ois ,

eper Sonia eGilles

Ad Aurore continuaa ronzare in testa quello che le ha detto Bruno poco fa. "Dobbiamo squagliarcela di qui. Hai capito?". La tenevastretta contro di sé, con quella tenerezza che la turba tanto. Aveva abbandonato gli occhi in quelli di lui. Per capire, appunto.

Aveva scosso la testa. Sconvolta. Tutto quello lo sa già. Non è la prima volta che ne parlano. Bruno è ossessionato. Nizza: ha voglia di appiccarle il fuoco.

"Sono tuttistronzi !".

"Non tutti" risponde lei.

"Ah sì!".

Ha ragione, lo sa.Anche solo dove abita, inrueSaltalamacchia 13, glistronzi non mancano di certo. Come le ripete Bruno. "Ilreader'sdigest dellastronzaggine umana" dice così.

"Appena li vedi hai capito tutto".

Aurorepensa aNavello . Un vero fascio. L'altra sera l'hadi nuovo bloccata nell'ascensore.Come se la sorvegliasse .Appena arriva nel palazzo, lui salta fuori e si affretta a scivolarle dietro nell'ascensore. Due piani sono lunghi. Non le stacca gli occhi di dosso, unsorrisetto all'angolo delle labbra.

"I marocchini la eccitano, eh?".

Non risponde. Non risponde mai.Né buongiorno, né buonasera. Con lui, silenzio stampa. Non parla con i fasci.

"Vedrà, quando trionferà l'Aquilanizzarda , finiti i marocchini".

Sestasera lo incontra, tornando a casa, gli sputa in faccia.

"Aurore, dobbiamo andarcene da qui".

Bruno glielo aveva ripetuto, le labbra contro l'orecchio. Poi le labbra le avevanosfiorato la guancia e avevano trovato le sue. Aveva sentito la sua lingua in bocca e il sesso indurirsi contro il suo ventre. Si era stretta a lui più forte. Le piaceva, il desiderio di Bruno.

"Perchénon capisci?".

"Cosa?".

"Chefaremo la loro fine se non tagliamo in fretta la corda".

"No."

sano?".

"Non diventeremo mai come loro".

"Ah sì?".

Bruno aveva riso.

Nello stesso istante lei aveva visto sfilare davanti agli occhi i volti di tutti gli inquilini.Anche quelli della gente che le piaceva .E di sua sorella. Le avevastretto il cuore pensare una cosa del genere. "No, loro no" aveva voglia di gridare.

"Smettila di dire 'ah sì?'. Mi fai venire i nervi".

Si era irrigidita nelle braccia di Bruno.

"Piccolo proprietario,piccoli sogni, piccole speranze, piccole vite...".

"Basta, Bruno!".

"Ecco quello che vuoi. Assomigliare a tua madre?E finire nel letto di un vecchio bellimbusto...".

"Basta!".

Si era liberata dal suo abbraccio, bruscamente.

"Torno a casa".

"Vai, corria ingozzarti di gnocchi e spezzatino!".

Adesso Aurorecammina lentamente, ritardando il momento di rincasare.'Speriamo che non abbia fatto lo spezzatino!' pensa. E' triste. Ha voglia di piangere.Perché in fondo Bruno ha ragione . Lo pensa anche lei che quella vita dimerda rischia di divorarle il cervello, poi il cuore.E pure il corpo.

Le torna in mente una frase diRilke . Un libro che ha letto da Sonia:'Ogni torpido tornante di questo mondo genera figli diseredati ai quali nulla di ciò che è stato, nulla di ciò che saràappartiene' .

Vita dimerda !d ice a voce alta.

No, non la vuole quella vita dimerda . Vuole tutto, tutto e subito. Bruno. L'amore. La libertà. Si sorprende a dire:'Ah sì!' e questo la fa arrabbiare.Perché in fondo ha fifa . Non si vede mollare tutto, andarsene di casa. Da Nizza. Non ancora. Dopo la maturità.'Ecco , fai la maturità e dopo, d'accordo, dopo fai quello che vuoi...'.

Sta pensando a tuttoquesto mentre passa davanti a "Il Lume di Luna". Intravede Carole, lamaestrina del quarto piano. Sedutaa un tavolo, una birra alla spina. Sola. Quella ragazza le piace. Si sono incontrate qualche volta da Sonia, la vicina, dalla quale ripassa latino e greco. Anche Carole, come Sonia,ama la poesia. Giovenale, Virgilio, Ovidio. Ovidio. "Le Metamorfosi". Aurore le sta studiando in classe in questo momento.

Carole fa un cenno ad Aurore. Caroleha l'aria triste. Senza pensarci, Auroreentra nel bar e va verso di lei.

"Come va?" le chiede un po' stupidamente.

Si sente goffa di fronte a quella donna.Eppure pochi anni le separano. Sette, forse. Sette anni, tutto un mondo.

"Vuoi sederti?".

Auroreguarda l'ora, si guarda attorno, poi si siede, timidamente.

"Bevi qualcosa?".

"Sì, una birra, come lei".

Carola chiama il cameriere.

"Un'altra birra".

I loro occhisi incontrano. Quelli di Carole sono come velati di lacrime.'Hapianto' pensa Aurore. Silenzio fra loro.Appena interrotto d al cameriere che porta la birra.

"Ecco" dice, posando il bicchiere davanti ad Aurore.

"Grazie".

Bevonoin silenzio. Aurore nonsa cosa dire.E più semplice quando si trovano da Sonia . Sonia mette tutti a loro agio. A casa sua, i rapporti fra la gente sembrano più semplici.Ma lì... Aurore si rende conto che lei e Carole non si sono mai parlate fuori casa di Sonia.

"Estrano".

"Checosa?" domanda Carole.

"Trovarci qui, così, tutte e due".

Caroleha un sorriso triste.'E 'bella' constata Aurore.

"Ah".

Ilsilenzio le minaccia di nuovo.

"Non è facile" riprende Carole.

"Beh, no...".

"Voglio dire, la vita. La vita non è per niente facile".

Ha detto queste ultime parole quasi piangendo.

"Non si metta a piangere".

Carolescuote il capo. Un altro sorriso le torna sulle labbra.

"Adesso mi passa. Hai un ragazzo?".

"Sì... si chiama Bruno".

"Eun bravo ragazzo?".

Auroresorride .

"Molto.E lei?".

"Sì, Enzo. Mi ha appenalasciata ".

I loro occhisi incontrano di nuovo.

Carolealza le spalle.

"Eh, è la vita. Si dice così".

"No, non è la vita. Io non ci credo. Bruno dice che nella vita non dobbiamo accettare niente che sia contro la nostra felicità. Che dobbiamo ribellarci controquello che ci ferisce, ci fa male... Dice così...".

Aurore sisorprende a parlare. A parlare delle sue discussioni con Bruno. Non ne parla mai.Dopo quella volta che ci aveva provato, con sua sorella.

"Cosa sonoquestecazzate ? Te le insegnano a scuola?".

Aveva soltanto detto che per lei ogni essere umano aveva in sé una parte di felicità e una d'infelicità.E che, in genere, la maggior parte si crogiolava nell'infelicità.

"L'infelicità è così semplice.Ti lasci andare e...".

"Macosa dici! L'infelicità è perché viviamo in una società in cui conta solo il profitto. L'infelicità per noi, per migliaia di persone, è il capitalismo".

"Ma ci credonoalla felicità tutte quelle persone?".

"Guarda, quando sei nellamerda fino al collo, pensi solo a tirarti fuori. Reggere fino alla fine del mese.E, se hai un lavoro, arrangiarti per tenertelo stretto ".

"Tu ci credi alla felicità?".

"Io sono felice. Punto e basta. Tutto il restosono discussioni da intellettuali.Che non cambiano la vita ".

Cambiare la vita. Bruno non pensa ad altro.Ma la rivelazione non l'aveva trovata in Marx. L'aveva trovata inRimbaud .

"Bisogna incominciare a direno. Ogni volta che dici sì sei complice di tutto questo".

Aveva fatto un ampio gesto, come per indicare la distesa del disastro umano. E si estendeva benal di là di Nizza.

"Dire sì è già compromettersi".

"Anchese ti chiedo se mi ami?".

"Dipende da cosa intendi per amore".

Bruno è così.Ossessionato dalle parole, dal senso delle cose . Aveva un cuore d'oro.Soffrirà per questo, A urore lo sa.

"Soffre di essere così" dice a Carole.

Carole l'haascoltata. Stupita di vederla aprirsi in modo così intimo, e semplice.

"Capisco" dice. "Anch'io lo penso, un po'. Viviamo tra ombra e luce.Ed è come dover trovare la propria via fra le due. Sul filo del rasoio".

"E' lì che soffriamo, no?".

"Non capisco perché Enzo mi halasciata . E' questo che mi fa soffrire. Non il fatto che mi halasciata ".

Auroreannuisce . Si chiede se Bruno la lascerà un giorno.Se la lascerà perché lei non vorrà seguir lo.

"Checosa pensa, lei, se...".

"Secosa?".

No, non può parlargliene. E' il loro segreto, suo e di Bruno.

"Niente" risponde. "Niente. Pensavoa una frase diCamus . Dice che bisogna cercare di viverea metà distanza fra la miseria e il sole".

"Eallora?".

"Spesso ho voglia di tagliare la corda. Di andarmene via, lontano".

"Non vedo il rapporto".

Auroresorride . Afferra una sigaretta dal pacchetto di Carole, l'accende.

"Fumi?".

"No. Insomma, qualche volta. Mi piace".

Aspira il fumo a lungo, poi lo soffiaaltrettanto a lungo alzando la testa verso il soffitto.

"No, non c'è nessun rapporto. Ho ripensato a quella frase e basta, e...".

"Partire non cambia niente. Non si cambia la vita scappando. Altrove è la stessa cosa".

Hanno ordinato un'altra birra. Sembrano due amiche. Due sorelle. Si raccontano. Auroreparla come non ha mai parlato. Nemmeno con Bruno. Le fa bene aprire il cuore.

Smette di parlare, spegne la sigaretta - la terza - e si rende conto che suo padre è lì.

"Fumi adesso!".

"Io...".

"E' colpa mia" dice Carole.

"Lei...".

"Le spiego. Si sieda,Felix ".

Auroreguarda Carole. Non le piace che chiami suo padre per nome. Il suo sguardo va da uno all'altra.

Felixsi siede.

"E' che...Ti aspettiamo per mangiare" dice ad Aurore. "Masì, portami unpastis " aggiunge in direzione del cameriere.

"Vi conoscete?".

"In ascensore" sorride Carole.

Aurorepensa aNavello . Sempre con lei in ascensore. Suo padre farà lo stesso con Carole? Losorprende mentre guarda Carole. Legge il desiderio nel suo sguardo. Lo trova disgustoso.

"Eravamo preoccupati" diceFelix a Carole.

"Comehai fatto a sapere che ero qui...".

"Ho...".

"Galeazzo" risponde Carole.

"L'ex portinaio".

"E' ancora portinaio, nella sua testa".

"E' stato Galeazzo?" domanda Aurore al padre.

"Beh... per fortuna che c'è lui...".

Il cameriere ha servitoFelix . Alza il bicchiere in direzione di Carole.

"Alla sua".

"Andiamo" dice Aurore.

Poi guarda Carole.

Qualcosa siè spezzato, lo sa . L'intrusione del padre ha come rimesso le cose al loro posto. Carolesta dalla parte dello sguardo degli uomini, del desiderio, di quella vita da cui Bruno vuole scappare.

Bruno ha ragione.

Adesso rimpiange di essersi confidata con Carole.Anche se non crede che racconterà a suo padre quello che le ha confidato . Rimpiange soltanto di avere tradito Bruno parlando di loro, dei loro sogni.

"Andiamo" ripete.

"Oh! Non c'è più fretta, adesso".

Carole sialza .

"Io vado".

Felixfinisce di bere.

Aurore e Carole sono già in strada. Sono uscite senza aspettareFelix . Gli hanno lasciato pagare le consumazioni.

"Scusami" dice Carole.

Aurorealza le spalle.

"Perchélo hai chiamato per nome?".

Adessoè Carole ad alzare le spalle.

"Non so. Mi sembrava meglio.Per... per neutralizzare il suo arrivo".

Sono davanti al 13 dirueSaltalamacchia .Felixesce dal bar. Si affretta . Aurore sichiede se aveva soldi.

"Mi perdoni?" domanda Carole.

"Non credo".

"Mi dispiace".

"Non serve a niente che tidispiaccia . Avrei preferito che mi sgridasse".

Felixle raggiunge. E' arrabbiato perché se ne sono andate senza aspettarlo.

"Buonasera" dice Carole senza dargli la mano.

"Non... non sale? Ci sono... gnocchi e spezzatino.Se le va... Cosa ne pensi, Aurore, eh ?".

"No grazie. Sto un po' fuori".

"Ah".

"Sali" dice Aurore al padre. "Arrivo fra cinque minuti".

Felixguarda Aurore, poi Carole. Senza capire. Si rende appena conto di essere di troppo. Le donne sono sempre complicate. Lo ha sempre pensato.

"Cinque minuti. Non di più".

"Buonasera" dice a Carole.

Non osa darle la mano.

Aurore e Carole si guardano.

"Vengo con te" dice Aurore.

"Non so dove vado".

"Neanch'io".

Scoppiano a ridere.

"Vorrei presentarti Bruno".

"Sì, mi farà piacere".

[Laprima versione di "AuLume di Luna" è stata pubblicata in "13,rueSaltalamacchia ", opera collettiva,EditionsduRicochet , Nizza, 1997].

UN INVERNO A MARSIGLIA.

PerMartine eMichel

Mi ero ripromesso di farlo il giorno di Natale. Andare in galera a trovareJoélle . Portarle un regalo. Parlarle. Soprattutto parlarle.

Cinque anni fa - ero ancora sbirro - aveva ucciso il suo ragazzo.Akim ,diciott'anni . Tre coltellate. Senza ragione. Se non'lapaura' . L'aveva ammazzato dopo essere stata a letto con lui.

Non ero riuscito a tirarle fuori nemmeno una frase. Nemmeno una parola.

Nel suo diario aveva scritto:'Che cosa ho fatto per avere paura?'. E più in là:'Non è una paura qualunque, che ti attanaglia, nei momenti d'incoscienza, e neppure la paura del ridicolo che ti sbatte contro il tuo amor proprio, è una paura profonda e senza via di scampo".

Tra lei e la sua paura aveva scavato un abisso: la morte. Il crimine.Quello dell'essere che più amava al mondo.

Mi ricordavo che 'consegnando'Joélle ai giudici mi ero detto:'Il comportamento umano non è logico e il crimine èumano' .

Da allora non pensavo più. Evitavo di pensare, di riflettere. Mentalmente avevo chiuso tutti i libri che cercano di dare un significato alle nostre azioni.E mi tenevo lontano da ogni riflessione assennata. Andavo a pesca e a camminare sulle "calanques", trovavo il tempo di preparare da mangiare per gli amici e facevo del mio meglio per vuotare delle buone bottiglie di vinodi Provenza.

"Oh! Miascolti?" disseFonfon .

Aveva appena stappato una bottiglia di bianco. UnPuySainte-Réparde .Ne avevo portati venti litri.

"Sì"

"Allora, conHonorine dicevamo che il veglionepotremmo farlo insieme. Lei è sola e io pure.Magalì e i bambini non verranno. Vanno a sciare".

Un giorno era venuto un tipo, alla scuola degli sbirri. Un sociologo. Direttore alC.N.R.S ., Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica. Aveva scritto un libro: "Usanze eumori dei francesi secondo le stagioni". Quel tipo, credo si chiamasseBesnard , ci spiegò che l'omicidio di sé e l'omicidio dell'altro nonvanno di pari passo, né in senso inverso. Si uccide e ci siuccide molto in luglio, era la sua tesi.Ma , diceva, è in dicembre che il suicidio si fa più raro.

Ci aveva anche raccontato che non si trova nella curva delle aggressioni fisiche il picco di settembre, e neppure il crollo di dicembre che caratterizza i delitti sessuali. Secondo lui in entrambi i casi la primavera, fino a maggio, era una stagione particolarmente tranquilla per la violenza privata. L'esplosione avveniva in giugno.

Quel tipo aveva una risposta a tutte le domande che sipone uno sbirro. Una meraviglia.Pistola nella mano destra, manuale di sociologia nella sinistra .MaBesnard aveva rovinato tutto nella conclusione. "Il movimento stagionale della violenza interpersonale" dichiarò, "non sembra rivelare alcuna spiegazione semplice o spontanea, sia essa d'ordine climatico o fondata sulla frequenza delle occasioni".

Dopo aver analizzato tutto, era ritornato al punto di partenza. La teoria non dà risposte. Permette soltanto di teorizzare.

Sul crimine. Lo stupro. La delinquenza.

Eanche sugli incidenti stradali.

All'approccio stagionale poteva seguire l'approcciosecondo il sesso. Poi secondo la razza. Per cercare di capire il mondo. Mettendolo in ordine.

Un giorno, tutto doveva rientrare nell'ordine.E lì tutto si complicava. Nessuna teoria è esatta finché non è verificata. Come le scoperte scientifiche. La bomba atomica èrisultata "vera" soltanto dopo Hiroshima.

Sperimentazione.

Campo di sperimentazione.

C'erano state altre applicazioni moderne.La soluzione finale prevista per una razza eletta . Il gulag per la felicità del popolo.SabraeChatila per preparare la pace . La Bosnia. IlRwanda . L'Algeria...

Si tornava sempre allo stesso punto di partenza.A quello che non aveva senso . Al momento senza ragione in cui una bambina di diciassette anni uccide il suo amichetto.

"Una personalitàfuori dal comune" aveva detto il giudice.

Da allora,Joélle si era persa nel silenzio.

Per sempre. Pazza, dicevano che era diventatapazza .Perché ci vuole pure un termine per definire l'incomprensibile .Joélle . Un giorno. Oltre le statistiche. Oltre le curve mensili degli omicidi.E le stagioni. Si ritornava a quello. Alla paura.

La vita. La vita stessa.

"La neve non la sopporto" risposi.

"Cosa dici?".

"Beh, sì. Resto con voi.Che ti credi, che vado alla messa di mezzanotte ?".

Sorrise.

"Honorineha detto che ci fa l"'oursinade". Con ostriche e vongole d'antipasto.E i tredici dessert di rito. Servizio completo!".

PresiFonfon per le spalle e lo abbracciai. Con le lacrime agli occhi. Mi misi a piangere. Avevo previsto di andare a trovareJoélle .MaJoélle non mi aveva aspettato. Siera suicidata il giorno prima, all'alba. Nella sua cella.

"Passerà" dissi aFonfon tirandomi su.

Lasciai andare lo sguardo sul mare. Verso l'orizzonte. Non avevo ancora trovato niente di meglio per dimenticare le schifezze del mondo.Joéllealzò gli occhi su di me. Aveva occhi neri, stupendi. Avrei potuto essere un buon padre per lei?O un buon amante? Scossi la testa. Come per dire sì. Sì,Joélle . Più siva in fondo alle cose e più la differenza tra felicità e infelicità sfuma. Sì, questo almenoavrei potuto spiegartelo.

Vuotai il bicchiered' un fiato e mi alzai. Avevo voglia di perdermi in giro per Marsiglia. Nei suoi odori. Negli occhi delle sue donne. La mia città. Sapevo che mi avrebbe sempre dato appuntamento con la felicità fugace di chi è in esilio.

L'unica felicità che mi andava bene. Un bel regalo di consolazione.

[Laprima versione di questo racconto, intitolato "Souris, Montale, c'estNoél ", è stata pubblicata sulla rivista "Regards", dicembre 1996. FabioMontale è l'eroe dei romanzi "Casino totale", "Chourmo", "Solea", pubblicati dalle Edizioni e/o].

NOTA SULL'AUTORE.

Jean-ClaudeIzzoè nato nel 1945 a Marsiglia, dove è morto nel 2000, a soli 55 anni. Ha esercitato molti mestieri prima di conoscere un successo travolgente con la trilogia noir - "Casino totale", "Chourmo", "Solea" - e con i romanzi "Il sole dei morenti" e "Marinai perduti", tutti pubblicati dalle nostre edizioni.


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