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GIOVANNI GIUDICI 1924

Italiana


Giovanni Giudici 1924

da Prove del teatro

Questo caro sgomento

L'infanzia dalle lunghe calze nere

Logorate ai ginocchi sugli spigoli

Dei banchi, l'infanzia delle preghiere

Assonnate ogni sera, delle nere



Albe dei morti, della litania

Di zoccoli cristiani sul selciato,

L'infanzia che m'ha dato

Questo caro sgomento mio d'esistere...

da La vita in versi

I vecchi

Non onorate i vecchi,

abbiatene pietà

perché sono gli specchi

di come finirà

tutta la vita per noi

che non abbiamo virtù:

vogliono i vecchi eroi

amore, ma non c'è più

nei vecchi nulla da amare,

lacrime, sesso e vino:

tutto dobbiamo odiare

nei vecchi, nostro destino.

Ladri di notti corte,

il giorno ci perderà:

coi vecchi la stessa morte

misura le nostre età.

Il benessere

Quanti hanno avuto ciò che non avevano:

un lavoro, una casa - ma poi

che l'ebbero ottenuto vi si chiusero.

Ancora per poco sarò tra voi.

Se sia opportuno trasferirsi in campagna

Gli scherzi, le meraviglie della natura,

i nani, i nidi, le uova con due tuorli,

scoprirli come ti piace - più sicura

ti fanno che un miracolo è possibile,

non qui, ma altrove, dove attraversano

la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli,

e la vita è vicina, il tiranno invisibile,

e gli uomini, senza fretta, conversano.

Se sia opportuno trasferirsi in campagna

spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro

che non manca, il civico decoro

di cui partecipiamo, la cuccagna

delle vetrine addobbate, dei cinema aperti,

dello stadio, dei dancing, dell'ippodromo,

di ciò che vuoi pronto a tutte le ore

della voglia improvvisa... Ti diverti

anche tu nella festa cittadina,

ma se una sera d'estate troppo calda

l'afa della pianura ti stagna in cuore,

t'affanna il respiro, ti fa meschina,

per noi è facile andare in Brianza,

una mezzora di macchina se è sgombra

la via da chi ritorna, se la danza

dei fari non è cominciata. E l'ombra

è chiara, il giorno ancora non si perde,

la strada sale appena e più lontana

la città più veri si fanno i paesi:

Desio, Seregno e la musica verde

dei cipressi che avvolgono Inverigo:

bianche, grige, celesti ville, austere

o d'una grazia semplice, un intrigo

settecentesco invitano o severe

meditazioni nel cortile interno:

il sabato una visita in città

e a primavera una festa in giardino

per chi le abiterà nel lungo inverno.

Se sia opportuno trasferirsi in campagna,

se tanto costa pagare la vita,

mangiare, amare, respirare l'aria

viziata dallo smog che fa patita

anche una piccola pianta sul balcone:

qui, dove accampa prigioniera un'orda

per un settimo giorno d'evasione

sei giorni cupa, e su strade a raggera

domenicale un allegro padrone

emula e crede liberarsi - sorda

alla voce di rabbia che ogni sera

strozza un singulto assonnato... Se sia

giusto appassire qui tutta la vita

in attesa di trasformarla oppure

rassegnarsi ai perduti, dar partita

vinta ai traffici, al corso degli onori,

e scegliere il treno del mattino,

la corriera alle sette da Bosisio

sulle rive del vago Eupili - fuori

la notte almeno da questa città,

dove un me stesso a un tavolo, a uno scranno

servile insegue vana libertà

di giorno in giorno rinviata, 17317h73r e spera

ritrovare per sé l'ultima luce dell'anno

l'ultimo anno di vita con forza intera...

Sarà opportuno trasferirsi in campagna,

una più salubre aria ci invita:

questo chiedono il tempo, le migliori

condizioni che allietano la vita,

il progresso, i miracoli, i conforti

della tecnica nostri servitori,

questo l'industria dei semplici cuori

che ci apparecchia le felici morti

delle poche letture, pochi amici,

pochi giuochi serali, pochi storti

ribelli umori... Così ci vuole il mondo

che invecchia delle nostre vecchie sorti:

e anch'io, vinto pudore, mi dispongo

nei numeri d'attente previsioni,

coltivo fiori, inchiodo legni, rispodo

con lacrime a elette commozioni

pubbliche - e sono là, così diverso,

chiudo un cancello, sciolgo un cane

guardia al piccolo mondo d'un disperso

villino nella fitta schiera uguale

dei simili, depreco il tempo avverso:

«quello che sono è bene, il resto è male»

penso nel coro - e un'altra libertà

benedico, riposo domenicale.

..............

Qui di me si perdeva la miglior parte,

che maledice e spacca la noce tra i denti,

e a quel minuscolo crac ancora prossima spera

la fine di ormai remoti stenti.

Dal cuore del miracolo

Parlo di me, dal cuore del miracolo:

la mia colpa sociale è di non ridere,

di non commuovermi al momento giusto.

E intanto muoio, per aspettare a vivere.

Il rancore è di chi non ha speranza:

dunque è pietà di me che mi fa credere

essere altrove una vita più vera?

Già piegato, presumo di non cedere.

Cambiare ditta

Non puoi cambiarti, ma almeno cambia ditta,

Il posto di lavoro è più che una metà

(Inutilmente resisti) della tua anima:

E quante cose per te cambieranno!

Avranno altri volti e strade le tue mattine,

T'illuderai quasi di aver cambiato città,

Di avere davanti una vita. Un nuovo gergo

Imparerai nelle file dei nuovi conservi:

Ti ci vorranno due mesi per scoprirlo banale.

E poi nuovi padroni, nuove regioni dei tuoi nervi

In evidenza agli uffici del personale,

Nuovi prodotti e una nuova misura

Di quel che è bene e male - ed infine te stesso

Di cui tutti diranno che sei nuovo.

Annuncerai ai lontani la tua novità:

«Questa mia è per dirti che adesso mi trovo...»

Con tutta semplicità

Con tutta semplicità devo dire

che un tempo sembrava lontano

il tempo in cui morire.

Ora non è più un pensiero strano.

Ora è sempre lontano (almeno spero) ma

posso già prefigurarmelo. Ho l'età

in cui dovrei fare ciò che volevo

fare da grande e ancora non l'ho deciso.

Faccio quello che faccio, altra scelta non ci sarà:

leggo di miei coetanei che muoiono all'improvviso.

Una sera come tante

Una sera come tante, e nuovamente

noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro

settimo piano, dopo i soliti urli

i bambini si sono addormentati,

e dorme anche il cucciolo i cui escrementi

un'altra volta nello studio abbiamo trovati.

Lo batti coi giornali, i suoi guaìti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti

intatti, in apparenza, come anni

or sono, anzi più chiari, più concreti:

scrivere versi cristiani in cui si mostri

che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti;

due ore almeno ogni giorno per me;

basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire

di sere come questa?) e non tentato da nulla,

dico dal sonno, dalla voglia di bere,

o dall'angoscia futile che mi prendeva alle spalle,

né dalle mie impiegatizie frustrazioni:

mi ridomando, vorrei sapere,

se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;

o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente

la sorte di ogni altro, non volgare

letteratura ma vita che si piega al suo vertice,

senza né più virtù né giovinezza.

Potremo avere domani una vita più semplice?

Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,

se private persone senza storia

siamo, lettori di giornali, spettatori

televisivi, utenti di servizi:

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.

È nostalgia di futuro che mi estenua,

ma poi d'un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!

Da quanti anni non vedo un fiume in piena?

Da quanto in questa viltà ci assicura

la nostra disciplina senza percosse?

Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura

che dice: domani, domani... pur sapendo

che il nostro domani era già ieri da sempre.

La verità chiedeva assai più semplici tempre.

Ride il tranquillo despota che lo sa:

mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.

C'è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.

Le ore migliori

I

Le tue ore migliori... ma non sono per me:

sono le ore del lavoro domestico,

che è troppo trascurabile realtà

per essere degno di storia. Progredisce

la storia, infatti, ma il tuo lavoro

semplicemente ricomincia e finisce.

Le tue ore migliori sono della mattina,

quando ti lascio e tento per vie diverse

variare l'obbligato itinerario

che sempre da un punto parte e ad uno arriva.

Batte il sole al balcone di cucina,

prima di cominciare tu guardi in strada.

Io guardo invece nel fondo del mio cortile,

mentalmente bisbiglio Dirigere

et sanctificare, la breve preghiera,

mia virtuosa abitudine prima di lavorare:

lucida è la mente al quotidiano servizio

e la stanchezza impossibile appare.

Intanto passano le tue ore migliori,

quando potresti parlarmi e sorridere.

Tali bruciavano gli anni di gioventù

nell'aspettare più sereni giorni:

e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola

(i figli sono a scuola) e aspetti che torni.

II

Dice decoro la tavola apparecchiata,

possiamo avere tutto quel che vogliamo:

all'opulenza mancano forse i fiori.

Il buon cibo conforta dopo l'onesta fatica.

Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo

troppo avidamente, per fare presto.

E ricominci: i necessari rifiuti

in un solo piatto raccogli, riempi

il lavandino ove galleggiano sughi,

affondano fili di pasta, bucce. Adempi

la tua virtù necessaria, riordini

ancora una volta la casa. Io ad altro

lavoro attendo, al mio ufficio, sperando

di fornir l'opra e non me, anzi che giunga la sera,

per godermi la luce residua e, di me

stesso padrone, qualche ora d'avanzo.

Ma non sarà quella la vita vera:

sono queste ore migliori e non ci appartengono.

Eccoci ancora intorno alla mensa serale,

tra le risse dei figli allegramente spietate:

e nuovamente si guasta la linda cucina,

la tovaglia è chiazzata di vino. «Lascia

così - suggerisco - penserai domattina

a tutto. Adesso resta un poco con me».

III

Nessuno ci corre dietro. Ma tu

macchinalmente solitaria persisti

nel ritmo ordinario in cui ogni ora

ha la sua norma: sai già che il mattino avrà stanze

disfatte e l'odore del sonno e l'aria

che un brivido nebbioso vi porta o il sole

nella bella stagione. Bisogna dunque concludere

tutto perché tutto ricominci,

dopo un riposo di affrante bestiole,

col primo atto del domani:

vivrà la vita per chi non ha tempo

di vivere. Così anche ora da me ti allontani,

spingi cassetti, fai scattare sportelli,

ammàini l'avvolgibile con fragore:

e siamo soli con tutte le storie

dei libri che promettevano

in cambio di virtù felicità.

Così finiscono le tue ore migliori,

quando da un capo all'altro della città

si chiudono i portoni dei casamenti:

e in buie menti un comune pensiero

apre un barlume del meglio a venire...

Così non riconosci l'inganno

di chi ci ha fatti a servire.

L'educazione cattolica

I

Nelle sole parole che ricordo

Di mia madre - che «Dio

- diceva - è in cielo in terra

E in ogni luogo» - la gutturale gh

Disinvolta intaccava il luò d'un l'uovo

Contro il bordo d'un piatto

- Serenamente dopo in cielo in terra

Dal guscio separato in due metà

Scodellava sul fondo il tuorlo intatto

- La madre sconosciuta parlava

Religione entrava

Nella mia tenera età.

II

La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa

innocente benché misteriosa - noi due

sotto il letto accucciati sul freddo pavimento

- mi sussurrava «aspetta» - era soltanto un gioco

diverso un poco dagli altri - ma lì entrando

la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide

gridò corse a chiamare venne gente

- mai più giocammo insieme noi che semplicemente...

VII

Vivranno per sempre?

Sempre, sì - mi dicevo

e le vedevo

alla distanza del tempo rimpicciolire

lontanissime, in piedi, a braccia conserte

su quelle stesse soglie, o leggendo gli stessi giornali

crollando il capo, scuotendo gli stessi grembiali,

di nero o di grigio vestite e decisamente

fuori di moda come diventerà

ogni persona vivente

- ovunque e su quella stessa

strada fra il mare e una fila di platani

dove quieta ubbidiente e dimessa passò

la mia età infantile

- quelle persone viventi

che passarono poi come l'età

rispondendo di no alla domanda

che avevo dimenticata: no (dicendo)

non vivremo per sempre

- senza notizia alcuna, senza coscienza

di storia o di giustizia, senza il minimo dubbio

che un'altra vita sarebbe stata a venire

più vera, con più intelligenza:

e dunque senza viltà consegnate alla sorte

- alcune con stupore della morte,

con desiderio altre, con sofferenza.

La vita in versi

Metti in versi la vita, trascrivi

Fedelmente, senza tacere

Particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è

Sapere, né potere, bensì ridicolo

Un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s'allacciano

Complicità di visceri, saettano occhiate

D'accordi. E gli astanti s'affacciano

Al Limbo delle intermedie balaustre:

Applaudono, compiangono entrambi i sensi

Del sublime - l'infame, l'illustre.

Inoltre metti in versi che morire

È possibile a tutti più che nascere

E in ogni caso l'essere è più del dire.

Finis fabulae

Come una scia si richiude la favola

sugli sbruffi dell'elica lussureggiante di schiuma.

Guardala a poppavia che s'appiattisce

levigata da diavoli mulinelli.

L'essere è più del dire - siamo d'accordo.

Ma non dire è talvolta anche non essere.

Ah discreta più del dovere fu l'incoscienza.

Presto tutte le acque saranno uguali e lisce.

da Autobiologia

Raccomandazioni dall'area depressa

«Quanti dollari quante sterline.

Al posto di una lira loro ne prendono mille.

Va' pure in Francia ma attento con tutti quei soldi.

C'è chi gira nel mondo solo per quello scopo.

Ti vedono subito che sei italiano.

Ti vedono che cerchi di non far brutta figura.

Ti fanno l'amico ti invitano a mangiare.

Ti portano dalle donne d'accordo con loro.

Francesi portoghesi e turchi in modo speciale.

Con tanti soldi sta in guardia da quella gente.

Gli inglesi sono ricchi loro non te li rubano.

Gli americani sono lontani.

In tasca ci stanno male mettili nelle scarpe.

Ma poi mi domando e dico cosa ne fai.

Bisogna non averne per sapere come spenderli.

Faresti meglio una parte darmeli a me da tenere».

Sul trespolo

Zac - e con uno sciancato saltello

si issa sul trespolo dal quale sulle prime

per gioco dando a vedere che è un gioco

mima l'indefinito bipede fratello.

Volatile tra da cortile (per l'odore

e la palpebra grinzosa che ambirebbe

chiudersi da sotto i su)

e notturno - ma imbelle ma non rapace.

Ma di ciò vedremo - per adesso

siamo sul trespolo dove umanamente

scorriamo come su una tastiera le unghiette

tentiamo note di ilarità.

L'odore verrà col cibo col sonno e oltre.

E tuttavia sul trespolo ci recitiamo

maestri della parte che fingiamo.

Di noi sarà corpo o morte.

Issati anche tu se non vuoi perire di demenza.

Assumi dallo sterco la squama.

Impiastrìcciati addosso le piumette del piumino.

Ci sono stecchi e pidocchi per quanti trespoli vuoi.

Rattrappisci nella tua pancia

le zampette, rilassa culo e dorso,

da' un morso all'aria che lo scambino per sbadiglio

e non si tengano offesi quelli che guardi passare.

Il muso di bulldog del segretario generale.

Il muso atlantico. Il muso spaziale.

Il musetto volpino del più cretino.

Al muro dell'amore e del dolore.

Infossa il corto collo

a protezione del mento contro il montante eventuale.

Giù gli occhi - ma non ciechi completamente.

Deridi il buffo animale.

Sul trespolo eravamo uno.

Sul trespolo eravamo due.

Sul trespolo allocchiti e sepolti.

Eravamo molti.

La scappata

Il tempo di uscire dalla fila,

una cosa da nulla, imbucare una lettera

- andavamo per tre con me primo a sinistra

della prima terziglia, in divisa di fatica

d'un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno

- o era il collegio, vestiti alla marinaia

di blu camminavamo: dunque, un attimo e vengo,

sbucati appena da un sottopasso

ferroviario, ma era già il tempo di adesso

d'un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno:

o allontanandomi forse per un bisogno

- e la buca era lì

- era scritta la lettera ma diretta

a chi

- e il maestro chi mai redarguiva tirandogli

le orecchie

- e il tenente voltato laggiù

anche lui sottomano accesa la sigaretta

- e impassibili i due della terziglia mutilata

nudi da un lato ma come se niente fosse

- una cosa da nulla il tempo d'imbucare una lettera

il tempo d'un bisogno e rientrare immediatamente

ma oh quale voragine i quei brevi attimi fra me e voi

marcianti in fila anime candidate d'eroi

un traffico inesorabile fluiva macchine e macchine

e gli autotreni carogne le ghigne di quegli autisti

odor di nafta e affanno di sabato pomeriggio

e io lì bloccato sul marciapiede inesistente

e la mia assenza che si dilatava,

monca terziglia di testa, di secondo in secondo

e la mia bocca che parlava domandava

a un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno

altro che lettera a quest'ora altro che bisogno,

è tardi per ritornare - sbatti lì schioppo e giberne

divisa alla marinaia, oh miei ridicoli impicci,

è tardi - ripetendo ­- non so più

come fare,

per un piccolo sbaglio tutto che va alla malora:

pure - come sei caro coi tuoi pasticci,

lì sopraggiunta mi disse la buona signora

La Bovary c'est moi

I

Deve essere stato l'abbaglio di un momento

un tac di calamita da una parola mia o sua.

E io che ci ricasco benché lo so come sono.

Ma ti amo - mi ha ripetuto e come faccio

a non riamarlo io che non chiedo altro.

Poi tutti a bocca aperta che uno come lui

con una come me che nemmeno col pensiero avrei osato

Continuo a domandarmi come è possibile che.

Chissà lui cos'ha in mente chissà in me cosa vede.

Chissà cosa ama se pure ama.

Potrei supporre di non sapere come sono

e che anche lui si domandi come è possibile che.

Ma temo sia più vero quello che so di sapere

e lui se non oggi domani riaprirà gli occhi.

Forse ci sta già pensando a come cavarsene fuori

più avanti dei miei timori.

Non devo illudermi perché dopo sarà peggio.

Meglio dirglielo subito che se ha un sospetto è vero.

Che faccia conto sia stato come uno sbaglio al telefono.

Insomma niente - e che se vuole può andarsene.

II

«Cependant le berceau remue, et il ondule tout
seul... Elle est saisie, et entend une petite
voix très douce, si basse, qu'elle la croirait
en elle: "Ma chère et très chère maîtresse, si
j'aime à bercer votre enfrant, c'est que je
suis moi-même enfant"... Dès ce jour elle n'est
plus seule...»
J. Michelet, La sorcière

Dice: ti cullo il bambino perché

anch'io sono un bambino - ma è assurdo.

Non può avere la voce uno che non è qui

né braccia né potrei volendo cullarlo a mia volta.

Pure il bambino vero tace se resto in ascolto

della sua finta voce nella mia finta pace.

Pure gli posso far dire ogni parola che voglio:

mio amore quanto errore e dolore ci divide

quanto futuro senza futuro si spalanca.

Vuole mettere ordine vuole che mi riposi.

Gli posso far pensare ogni pensiero che voglio:

lei pensa che io penso - mi penserà.

Pensami nella mia camera ingombra del mio niente.

Pensami nel mio niente carico di tutto.

Di me diranno che ho visioni che sono magra.

Di me diranno abbia cura della salute.

Ma tace il bambino vero se resto in ascolto.

Tace se resto in ascolto il tic-tac dell'orologio.

Mi ha detto non avere paura non è quello il tempo vero

non guardare non toccare le vene sulle tue mani.

III

Una diavoleria ci vorrebbe - mentre ripeto

quasi che tu mi senta «le mie notizie

sono che adesso ho guardato la mia ombra»:

ma come puoi sapere che non mentisco?

Ti assicuro la guardo tutta nera sul rosso

a questo bel sole del gres del terrazzo - se almeno

potessi toccarti con l'ombra e questi minimi atti,

pèsca sotto i miei denti, muro contro i miei occhi,

sotto i ginocchi pavimento, un taglio

sulla mano, negli orecchi la mia voce...

Una diavoleria ci vorrebbe - per spiragli

di porte di finestre di tubi sottoterra

sul fruscìo tra gomme e asfalto o dov'è neve

questa luce ti arrivasse questa ombra:

perciò l'ora che il sole mi stampi esatta

dovrò scegliere e una pietra meno fredda

per i tuoi miei ginocchi e un graffietto da niente

se anche sulla tua pelle si farà e cantasse

questo sapore sulla tua bocca - m'ama non m'ama,

sentimentale peggio d'una puttana.

IV

Lontano come la luna mi domando come puoi

dirmi se è stata quella davvero l'ultima volta.

Ma prima di cancellarti devo saperlo.

In verità non è stata una volta speciale

come altre che a lungo mi avevi guardata

perché nei tuoi occhi restassi - dicevi,

mentale inerme immagine presto dimenticata.

Toccare è più che vedere, sentire è più che pensare,

ti rispondevo - non mi guardare.

La fine vera non è la fine aspettata.

Dovessi tornare alla scuola e mi dessero un compito

in cui si ordinasse «descrivi l'ultima volta»

potrei raccontare soltanto che «dunque a fra poco»

mi disse - ma non sospettavo che fosse l'ultima volta.

Se è stata proprio l'ultima seppellisci

il nome della strada e la bocca che ti sfiorava.

Non dovrò più cercarti in chi ti ha veduto

né ascoltare chi ti ha ascoltato - non tenterò

di toccare parole che ti hanno parlato.

Ma se non è stata l'ultima vieni a dirmelo.

V

Dico che arriverai da un lungo treno del mattino.

E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta

se non sia tu - o trasalire allo squillo uguale

a ogni altro se mai non fosse la tua voce

dall'altro capo a parlare, immaginarmi

rispondendo nel tenore convenuto

che a tutti indifferenza significhi e a te

invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto?

Quale dei lunghi treni ti porterà?

Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Ho guardato l'ora all'orologio sul muro.

Ho aspettato lo squillo già

scusato come e perché non hai potuto chiamarmi,

ho pensato: e pensare che ero qui sola.

Brevi minuti ancora mi restano per supporre

il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa

e un suono di citofono a questi miei inferi emerga

definitivo come un lieto annuncio di morte...

Ti scambieranno per uno come un altro - ho scherzato.

Arriverai domani se oggi non sei arrivato.

VI

La cosa che affastello per molte notti

nel sonno che s'interrompo frequentemente

e più nel dormiveglia dell'alba fastidiosa

che domani è già oggi e porta una nuova cosa.

Eppure la certezza è che tu non sei presente

nell'attimo a noi ben noto - il NO

di altra cosa che altro non può aggiungersi:

la verità del dubbio che tu sia niente

pensiero della mia mente

ma veri i giorni gli anni che per sempre non ti avrò.

Inerme contro il niente m'interrogo se tu sei

giuoco burla o passione irrevertibile

o un disegno sottile che mi sfianca o il vuoto

di tenerezza reciproco che è da riempirsi:

aspetto tue parole ma è luce di astro già spento.

Vorrei poterti abolire abolendo me stessa

come abolendo te stesso tu mi potresti abolire

per fare a tutti dire - di cosa mai parla

questa pazza senza pudore

senza il coraggio di morire per amore.

Preliminare di accordo

Tuttavia un minimo d'impostura è necessario - mi disse.

La verità non coincide con la saggezza.

Stanno contro il disordine alcune regole del gioco.

Sii grato al rituale. La verità ti divora.

Hai ragione - si aspettava che rispondessi.

Recitiamola pure la farsa del ragionevole.

Anch'io ripeterò che tutto non si può avere

pronto a morire purché non crolli il letto dove muoio.

Ma anche per me era l'ultima occasione che restava.

E prima di sottoscrivere solo chiedevo se in cambio

dell'accettare quel molto di finzione che diceva

un minimo di verità sarebbe stato compatibile.

giugno 1968

da O beatrice

Mi piacerebbe ma non vorrei
essere un poeta tragico

Comico suo malgrado è il colmo del comico.

Spesso patetico fu il comico con intenzione.

Tragico suo malgrado è il solo possibile

esito imprevedibile della commedia.

Non cerco la tragedia ma ne subisco la vocazione.

Alla beatrice

Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra

arrampicato su una scala di corda

affacciato dal fuori in posizione precaria

dentro i tuoi occhi celeste vetro

dentro i tuoi vizi capitali

dentro i tuoi tremori e mali

Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare

ciò che fanno seduti intorno a un tavolo

i tuoi pensieri su sedie di paglia

ospiti appena arrivati o sul punto di partire

raccolti sotto la lampada gialla

uno che ride uno che ascolta e uno che parla

Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa

dalla notte esteriore superstite luce

nella selva selvaggia che a te conduce

dalla padella alla brace

estrema escursione termica che mi resta

più fuoco per me tua minestra

Beatrice - costruttrice

della mia beatitudine infelice

Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com'è

la stanza dove abitare

se convenienti vi siano i servizi

e sufficiente l'ordine prima di entrare

se il letto sia di giusta misura

per l'amore secondo natura

Beatrice dunque di essi non devi andare superba

più che dell'erba il prato su cui ci sdraiamo

potrebbero essere stracci non ostentarli

per tesori da schiudere a viste meravigliate

i tuoi semplici beni di utilità strumentale

mi servono da davanzale

Beatrice - dal verbo beare

nome comune singolare

Corpo

Corpo - io non ignoro

la tua pietà.

Io - che senza posa esploro

il tuo pensarti e pensare.

E al fondo dell'immenso mare

paragono il tuo fondo:

quel che in te e di te

viaggia oltre questo apparente

esser fermo in un luogo o su un letto

e si modifica - sostanza del tuo aspetto

oltre questa apparente

tua identità.

Corpo - di odore e calore,

di fuoco, di luce e di vapore.

Corpo - votato alla cenere

e all'incoscienza solitaria di sé.

Tu che per darti non puoi non bruciarti.

Tu che non puoi aggrapparti all'attimo che ti ama.

Corpo - curiosità

animalmente inerme che si fruga

in un gioco di bambini fra le siepi.

Corpo - che in altro corpo si verifica

e in esso è bramoso di specchiarsi,

di stamparsi con un'impronta di tremore.

Corpo - chiusa monade

se spranghi le porte e finestre dei tuoi sensi.

Corpo - spogliato e illuminato.

Corpo - di luna e di sole.

Corpo - silenzioso e paziente.

Corpo - che nessuno sguardo ha ricordato.

Corpo - quando deborda

oltre gli stretti confini della mente

e naviga verso la sua propria distruzione.

E per un'ombra, una ruga minima sul ventre

o un tratto sgraziato del piede dichiara

la sua melanconia irrimediabile.

Corpo - offeso e adorabile.

O puro spirito.

Il progetto di se stesso (III)

Quanti graffi quanto dolore

Quante lacrime quanto seme

Quanta rabbia quanto sudore

E quanto di me distrutto.

Quanto battere senza senso

Chiodi su legni slabbrati.

Sarà stato inutile tutto

Poi che tutti saremo stati.

O mia fabbrica temeraria

O mia scala mentre ti salgo

O mia acqua scavata nella sabbia

O mio castello d'aria.

O beatrice

O beatrice senza manto

senza cielo né canto.

Beatrice tutta di terra

attraversata in guerra.

Beatrice costruttrice

della mia distruzione felice.

Beatrice ultimo gioco.

Beatrice salto nel fuoco.

Beatrice da sempre nata.

Beatrice stella designata.

Beatrice fiato e voce

dell'inchiodato in croce.

Beatrice delle paure.

Beatrice delle venture.

O beatrice senza santi

senza veli né oranti.

Beatrice tutta di furore

di febbre e tremore.

O beatrice di lacrime.

Beatrice furtiva bestiola.

O beatrice infinita.

Beatrice nella tagliola.

Beatrice pietosa

filia et mater mea gloriosa.

Beatrice che si spezza

per troppo di tenerezza.

O beatrice mia apprensiva.

O beatrice viva.

Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore

Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,

Era arrivato l'avviso di presentarmi

Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.

L'avvenimento era importante ma non grave.

Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista

E che si esorta: sii uomo, non è niente.

Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,

Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,

Appena un po' deglutendo nel domandare: c'è altro?

Ero io come sono ma un po' più grigio un po' più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era

Quello che normalmente penso che dovrà essere,

Ma nel paese vicino al mio paese

Su due terrazze di costa guardanti a ponente.

C'era un bel sole non caldo, poca gente,

L'ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po' burocratica,

Disse: prego di là - dove la cassa era pronta,

Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,

E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.

Pensai per un legno così chi mai l'avrebbe pagato,

Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l'apparecchio

Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.

Sarà meno d'un attimo - mi assicurò la signora.

Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.

Era una specie di garrota o altro patibolo.

Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.

E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli

Domandando se mi avrebbero rasato

Come uno che vidi operato inutilmente.

La donna scosse la testa: non sarà niente,

Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,

Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.

Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,

Che importa anche se era questione solo di ore.

C'era un bel sole, volevo vivere la mia morte.

Morire la mia vita non era naturale.

da Il male dei creditori

Gli abiti e i corpi

Ormai sfibrate le asole e sapienti

Rammendi qua e là - ma gli abiti

Sembravano come nuovi. Egli

Accurato ogni sera li deponeva

Sopra una sedia - quali

Che fossero l'umore o la stabilità

L'uxorio brontolamento che lo affliggeva.

E deponeva con essi il tic-tac

Che gli scandiva giorni e notti, l'oriolo

Da tasca con una croce

Elvetica in campo rosso - emblema

Di esattezza agganciato a una teca di cristallo

Con dentro una trapunta di velluto

In attesa di reliquie microscopiche.

Gli abiti duravano anni:

Il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce.

E ognuno col suo panciotto sul quale durante il giorno

La catenella che pareva di diamanti

Tra un'asola e l'oriolo nel taschino si stendeva.

Lui certe sere era greve di vino.

Si spogliava nel sonno, puntava al mattino.

Ma si destava fresco come certe volte io

Adesso forse più vecchio di quella sua età,

Che lo sbirciavo ritrovare le sue spoglie:

La giacca dignitosa, i pantaloni

Dall'impeccabile piega. E perché

Non dire del fregio rosa sulle mutande?

Perché tacere il colletto inamidato?

Tutto così ringiocondiva a ogni

Risveglio - sbarbato e tranquillo

E di un colore chiaro se distese dal riposo

Sbiadivano sulle guance le venuzze capillari.

Quale decoro l'abito

Rinnovato ogni giorno, restaurato

Dal persistere della giovinezza!

Dico il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce

E un quarto credo ereditato da un parente

Defunto: duravano anni.

Io li spiavo mattina dopo mattina

E lui spiavo impassibile a tutto:

Al passare del tempo,

Al male dei creditori.

C'è un calare di forze, un calare di brache.

Le note dei taccuini si pasticciano, né

Più giova registrare i nomi delle amanti

O gli incontri, i doni. Chi se ne frega,

Uno si dice, dell'ordine. E lì

Lui non ebbe più forza da dare ai suoi vestiti:

Di colpo furono vecchi.

Primo fu il nero umiliato dal lustro.

Poi sparì il grigio, poi quello a spina di pesce. Di-

Menticamioli. Altri ne furono addotti

In vece - da sartucoli azzeccagarbugli

Asserenti per mezzo delle vesti

Di portargli vigore.

Tra gli OH

Dei familiari che COME TI STA

BENE COME TI FA

GIOVANE mentivano e lui

Lasciava fare ma lo sapeva benissimo

Che anche i più ricchi panni perdono il loro pregio

Quando è mutato il corpo che li indossa.

Non ha più gloria da dargli.

In tre giorni si sfa il bel vestito.

Lui lo trascina nel suo precipitare.

Strappi e frittelle e bottoni penzolanti

Presto divelti da pestiferi infanti.

Muoia con me ogni orpello - sembra dire.

L'oriolo diventa aritmico.

Anche la Svizzera dà ore da impazzire.

Ah il triste riprovare - ché lui stava

Ancora in piedi tenuto su

Dall'appretto del nuovo ma per poco.

Nel cupio dissolvi di tutto poi ripiombava.

Ma ancora vivo da spaccare

Il guscio che l'imbracava

Quando gridava BASTA CON QUESTE FREGNACCE.

Perché come se fossero

Vivi vestiamo i morti?

Quanto più casta e giusta

È la nudità dei corpi che li avvicina

Al loro finalmente disincarnarsi!

Ma noi li mascheriamo così copriamo le ossa

Troncate perché fingano la supinità della catarsi

La liberazione dell'uomo

Bisognava vederlo. Cos'era

Una giornata di lavoro per lui?

Niente - avreste detto allo spettacolo

Di quando tornava a casa, contento

Come una pasqua, fresco come un fringuello,

Un grillo che saltava

Di stanza in stanza «dove sei» squittendo

«O mia adorata».

E ilare al ritrovarla «cucù»

Lanciava il suo gridolino

E poi subito all'opera «buona tu adesso»

Esordiva rivolto alla pigra befana

Tutto il giorno a fumacchiare sdraiata

A far parole crociate o solitari di carte.

Aveva l'arte di non vederla un orrore

Ma anzi le sette beltà, la grazia.

Per prima la cucina - oh il lustro

Che gli dava quell'uomo a quelle piastrelle

Alle pentole ai piatti alle maniglie,

Faceva tutto come nuovo ogni sera.

E altrettanto la sala lo stanzino

Il casto nido coniugale dove

A lei diceva con dolcezza «passa

Cara in poltrona intanto che faccio il letto».

Poi d'un balzo ai fornelli - e in un battibaleno

Che intingoli a quella golosa apprestava:

Salse bearnesi, vol-au-vent, supreme

Squisitezze di caccia e pesca, brodini

Di tartaruga, pasticci di funghi

A ogni stagione, ananassi.

Miracoli di economia - sempre meno

Spendendo del gramo peculio.

Mai che si chiedesse lei «come fa»,

Tutto accettava per dovuto battendo

Talvolta imperiosa la posata

Per una crème-brûlé troppo calda o un raviolo

Dalla minima crepa. Ed egli pazientissimo

Si scusava «hai ragione, che sciocco».

Poi l'assisteva in toilette

E la metteva a nanna sprimacciando il cuscino.

Davvero «che stronzo» avreste detto

E tanto più sapendo quanto sgobbava in ditta

Sotto il sopruso dei capi

E dei compagni la perenne irrisione:

Così per molti anni

Finché la beneamata morì per occlusione.

Ma nessuno ha saputo mai più

Di che libertà fosse il prezzo la sua servitù.

Senza titolo

Perché con occhi chiusi?

Perché con bocca che non parla?

Voglio guardarti, voglio nominarti.

Voglio fissarti e toccarti:

Mio sentirmi che ti parlo,

Mio vedermi che ti vedo.

Dirti - sei questa cosa hai questo nome.

Al canto che tace non credo.

Così in me ti distruggo.

Non sarò, tu sarai:

Ti inseguo e ti sfuggo,

Bella vita che te ne vai.

Nome

Era oro il nome e suono

Nella forma di campana

Non più ora mattutina

Ma ancora antimeridiana

Era verde negli ulivi

Era blu della marina

Nudo piede delicato

Su rugiade di declivi

Era oro il nome e vetro

Di bicchiere musicale

Fermo incedere nuziale

Nel decoro delle sfere

Netta nota e lontana

Lucenza al cervello tetro

Fiato a fiato che rideva

Nell'abbraccio della tana

Era oro il nome e mare

Era il chiaro della stanza

Era il niente del sublime

E un patire di speranza

Era il sole della neve

Era il bianco della fine

E poi il gelo crudo e lieve

Sull'estremo della danza

La sua scrittura

Voglio mostrarti un giorno com'era

La sua scrittura. Si appartava di là

Il foglio su un qualcosa

Di liscio con la mano sinistra sul bordo

Superiore a tenerlo ben fermo.

E intingi giù l'asticciòla

Col pennino nuovissimo a vergare

Missive... Egregio, esordendo, commendatore

Avvocato chiarissimo esimio

Ingegnere ammiraglio comandante

Eccellentissimo monsignor vescovo Graziosa

Regina... O intestando

In compìti caratteri sulla busta

N. H. un tànghero di bottegaio.

Quando osterie e compagni stornava

Nel chino silenzio a cui segrete

Drittissime le righe scorrevano

Del bel corsivo senza pentimenti

E gli stilemi - un ove a preferenza

Del dove in accezione

Temporale scarsamente impiegabile.

Stendeva suppliche, chiedeva dilazioni,

Esponeva le circostanze imprevedute per cui,

Deprecava l'infausta sorte

Che a questo punto rendeva la morte

Unica cosa desiderabile per lui.

Purché gli concedessero il minimo di respiro

Creditori e benefattori.

Spesso di quelle lettere protagonista

Con gli occhi io lo aiutavo nella penombra della stanza

Dove a un raggiro di parole

Egli affidava la nostra speranza:

Di salute così delicata

Questo mio povero bambino

Impressionabile come un artista.

Li abbindolava li teneva a bada sagace

Politico a parare

I colpi in ritirata necessaria,

A rattoppare l'impostura con una nuova

Ovvero giocoliere del circo

Un turbinìo di palle a palleggiarsi

Tra le annaspanti abili mani nell'aria.

Quale fatica - sembrava dirmi

Da quel tavolino adesso penso a tre gambe

A evocare virtù tropi similitudini

Esempi da pio debitore,

Alla fine del mese senz'altro pagherò,

Ma poi riposto il calamaio riuscire

Col suo sereno sorriso nel sole.

Doctor Subtilis... Anche lui scriveva il nulla.

Anche lui rinviava tutta la vita a domani.

Con quella prestidigitazione di segni

Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.

Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi

Verso il finire i margini a farsi incerti

La forbita sintassi a guastarsi.

Fino al delirio d'inchiostri e indirizzi sbagliati.

Fino al via-vai sulla porta

Di strozzini per reverendi

Di ciabattini per prìncipi apostrofati.

Ma chi s'è visto s'è visto

Risponde la mente morta.

Così i debiti saranno pagati.

[Ahimè - dicono - si piega]

Ahimè - dicono - si piega.

Ahi si svuota e si inarca.

Alfa include già omega

Navigato in chiusa barca.

Mentre nell'estranea forma

Ti intuisco e custodisco,

Mutazione, chiesa e norma,

Buio in cui mi definisco.

O diversa sapienza.

Presente che bruci il prima.

Sapienza d'inesperienza.

Mia fabbrica e mia ruìna.

da Il ristorante dei morti

Gli stracci e la santità

Credo che fosse la sola scappatoia - travestirsi.

Perché, nessun dubbio, non ero dei loro.

Identificabile a vista, basta

Che passassi per via - eccolo

Dicevano subito.

Esposto stefano protocristiano

E lì i sassi a portata di mano.

Non mancavano stracci di cui camuffarmi

Non propriamente di stoffa - smorfie occhi bassi

Parole prese a prestito da libri e labbra

E gattamorta e rumori scurrili e tutto

Il turpiloquio dei modi d'esistere.

Timorato bambino che ognora paventavo

Carabinieri ammanettanti il mio caro.

Gli stracci mi andavano larghi però

E quasi sempre la mia fatica sprecata:

Vieppiù i lanzi infierivano

Alla maldestra mascherata.

Io - braccato tarcisio in corsa ai suoi misteri.

A chi vorresti darla a bere piccioncino?

Ma chi vorresti prendere per il sedere?

Due o tre me li ricordo bene, mi facevano la posta

Sulla punta biforcante due strade

Una piana e diritta e l'altra un viale

Planante giù con platani e una grande ansa.

Due o tre, pensati in faccia - e poi chissà come

Angariati offesi a loro volta

Nel volgere di future storie. Parce

Nobis Domine, tanto più che io stesso

Proprio di lì ho appreso il sopravvivere:

A lapidare Stefano, a acchiappare per la tunica Tarcisio.

Cresciuto negli stracci che mi vennero a pennello

E non parvero più travestimento.

Confortato dalla loro malizia

In più di un'occasione ne fui gaglioffo e contento.

E a questo punto spogliarmene? Chi mai

Penserà a molestare un ometto così grigio

Nell'ordine mentito come di queste strofe?

Rischiarla adesso la santità?

Mio tribunale che mi frughi incerto

Fra essere e diventare - ho un bel dirti

Che non è quel che sembro.

Le nostre ombre

Come delicato ti appanni, specchio del mio nome.

Svaniscono oro e viola

Verdolino e beige - se ne vanno via

I bei pensieri - il luccichìo

Della nostra esistenza diventa grigio e vero.

L'ex-rosa è un lenzuolo bianco -

Precipita ogni damina nella sua cipria.

Ti guasta tutta questa fatica

Va-e-vieni carica di borse e paure

E io che ti arranco dietro senza idea di dove andiamo.

Come siano - domandiamolo agli altri:

Consumati che basta un malocchio

E subito un trac

Ci manda in frantumi.

Eh sì, mio tiziano e cranach -

Presto anche noi vetro e polvere

Dita di santi stantìe nelle tèche,

Ci mangeremo le nostre ombre:

Tutto il vedere e toccare tutto il sentire

Navigare sul mare

Del corpo tuo e mio.

Principalmente per questo io credo

Insistiamo nel camminare.

Eh sì

Eh sì tu te la fai a suon di chiacchiere

A suon di poesie e altre

Bischerate che poi

Vorresti anche metterle sui giornali - ma guarda me

Guarda lui a questa ora della sera dopo un'intera

Giornata che tu arrivi tutto pimpante

Guarda un po' noi se ancora ne abbiamo

Voglia o piuttosto se

Visitazioni

Melancolia dell'intelletto

Su e giù per la prigione

Nome scavato del suo oggetto

Cosa che sta sta senza il nome

Luce spiccata già

Che gli occhi mai non sapranno

Pane che indorerà

I forni del remoto anno

E più non ci avrà questo luogo

Dove aspettammo il vano segno

Fissi sul quadro appeso al chiodo

Da quel telefono di legno

Noi che improvvisa visitò

La nuvola del tuo odore

Quando sparita ti frugava

Il piccolo cane amore

O che ci apparve muto suono

Fermo nel puro movimento

Marciante uomo dietro uomo

Il misterioso reggimento

Però non erano risorti

Sfioravano appena la via

Dondolavano lievi e morti

Avanzi di fanteria

Mirabilia della vista

Che si sgranò a zoi e giostre

E improbabile catechista

Raggio di socchiuse imposte

Eccomi al tuo fruscìo

Balbetto il più che mi chiedi

Mio male sacro - mio

Ritmo che mi precedi

da Lume dei tuoi misteri

Itaglia

Avevano parlato di un possidente di Parma

Che la aspettava quando usciva dal collegio

In fila con le altre per guardarla e riguardarla

Contento di quel minimo privilegio

Benché ligia agli ammaestramenti

Lei sempre andava a occhi bassi

Badando a non trascinare le suole

A misurare i propri passi

E che davvero avrebbe voluto sposarla

Unico modo per scambiare due parole

E come moglie presentarla in tutta Parma

Scrisse ai parenti per consiglio delle suore

Ma perché no? Quale vita tranquilla

Per suo padre e sua madre nel paese di mare

Dal rispettoso marito della figlia

Formaggi e auguri ricevere per Natale

Come mai non l'avesse più sposata

La risposta è che lei disse no

Non lo voleva perché era innamorata

Di un altro che la storia mi raccontò

Quello stesso di cui fu detto:

Meglio perderlo e fior di canaglia -

Scriveva versi ed era di bell'aspetto

Come tanti ce n'è in Itaglia

Sembiante

Da molti mesi un mesto sogno

Avevo da raccontarti

Nel quale tu mi comparivi

E io temevo di guardarti

Non con il viso tuo di quando

Già sento un grigio di tempesta

Negli occhi sommersi e spenti

Nel tuo distrarre la testa

Verso il paese senza luogo

E al punto che mai sarà

Quel punto uguale al suo contrario

Dove è stretta la verità

Eri in un chiuso vano e alto

Avevi un viso di dolore

Tu mi guardavi mi parlavi

Ma non udivo le parole

Benché volevo accarezzarti

Supplicarti - non far così

Mi fai piangere, assomigli

Senza il sorriso ad Arletty

Perdona la mia paura

Mio solo grande peccato -

Per quell'inezia che divide

Ciò che non è da ciò che è stato

Ma le mie mani erano aria

Non ti potevano tenere -

Del sogno restò soltanto

Un sale di lacrime vere

Con te nel chiuso vano e alto

Da me volata via -

Io nel mio letto steso e stanco

Fra l'enigma e la bugia

Via Stilicone

Via Stilicone è a Milano una

Fra le vie più tristi che io conosca -

Una fila di case e quasi niente

A confortarle dalla parte opposta

Dove vaneggiano alle notti

Di uno scalo e di un cimitero

Le luci delle sue finestre

Occhi di fatiscente impero

Come la fronte di chi stando

A un nudo tavolo altra fronte

Cerca a cui stringersi posarsi

Ma nessuna gli risponde

E giù si spiega e si abbatte

Si fa cuscino delle braccia

Vuole scappare da se stesso

Sparire alla propria faccia

Strada uguale a dove sbando

Più ogni giorno o amica mia

Al Senzafondo al nome Morte

Che ha per compagna Follìa

Via Stilicone è a Milano la via

più vulnerabile che io conosca -

Una fila di case con paura

Del buio dalla fronte opposta

Orazione

Keep us quiet Our Something

Includi e proteggi - Nostro Qualcosa

Sii calmo in cambio non guasteremo

Questo buio bambagia dolore di lana

Tieni la nostra mente a freno

Non soffra spasmi il tuo seno

Portaci sacco infinito infinitesimi giona

Di cui tremano antenne onde vibri

Vanno spiriti e pregheremo -

Ich bin eine Besonderheit des Nichts

Mein Gott

Mein Tod

da Salutz

I.1

Minne Midons

E ogni altra cura lasciata

Esploro volumi

Alcuno che racconti:

È successo anche a me -

Dove la mente prigioniera stagni

Vostra o di chi non so

O che voi non sapete

Verso quali pensieri a quali mète

Mai mi svagassi anch'io

Su quella ferma strada

Dove c'incontra (narrano) lo sguardo

Che tutto e insieme vede

Chiamato Dio

I.10

E schiùditi - guscio di seta

Trapassate la pietra

Parole trapassate -

Muto di voi nel luogo di paura

E in orfane contrade

Accarezzavo la cara figura

Mia quasi vergine madre -

Vi assaporai confitto nelle ossa

Delle mie mani in croce

Vaghe lacrime e voce -

Da allora ch'ebbi in sorte e sempre poi

Gialla e nera di righe

Cavalcare alla morte

La tigre - che siete voi

IV.1

Di me quando sparita ancora udrete

Come di sopraggiunto

Messaggio che viaggiava opposte mète

Fra due dei quali ognuno era defunto

Di mattinieri pianti

Lacrime a me spargete

Nella fonda miniera o bei diamanti -

Dove più non sarò mi scoprirete:

Virtù d'insania quale a noi domanda

Nell'impervia contrada

Traviata luna e luce più che blanda

Il niente più, mai più della mia strada -

Stolida sorda pietra

Che pur movendo arretra

da Fortezza

E certe notti un pensiero:

Non sanno non sanno che tu

Resisti infinito infinita

Pazienza del cuor-di-gesù:

Mio tra crescermi e dormienza

Pulviscolo d'onnipresenza -

Non nato imprendibile spacco

Tra esserci ancora e mai più:

Di crinale in crinale

Estranei regni a un minimo volare

Bruciare alla speranza

Breve lume, nuda stanza

5-13 ottobre 1988

Dissi chi ero e vi prego prendetemi

Benché riluttassero quelli

Al mio affranto decoro

E io non risultando nella lista -

Fu il capo a venirmi incontro

Ochèi se è lei che lo vuole

Ai suoi ordinando accendiamo

La pratica:

Dal mio triste nascondermi al nascosto non potevo

Andare oltre o tornare indietro -

Volevo un luogo dove svelarmi

Con voce calma rielencare i miei frantumi

20-24 dicembre 1988

E lui di essa sia primo architetto -

Prigione non nel senso stretto

La sua più che del corpo

Dell'intelletto:

Sbarre serrature bastano

A farle via un po' di plastico

Pazienza di lima piedi di porco -

Ma chi è carceriere di se stesso

Ha un bel prendersi su capello per capello

A tirarsene fuori:

Cafarnao d'un cervello

Non c'è grazia se non muori

14-15 gennaio 1989

Stanotte visione dei gatti -

Ero io per primo a vezzeggiarli:

Qua bei micini - e intanto

Buffamente librati alla mia altezza

Non loro a me bensì io a loro mi appressavo:

Seguite poi le mani alle parole

Come si fa per scambiare carezze

Subito ecco alle mie dita conficcarsi

Maligne unghiette erpici di zampe

Perciò guaìvo: aiutami!

A una chiusa madre senza nome

da Quanto spera di campare Giovanni

Quanto spera di campare Giovanni

a Emilio Giudici

Mettere su una casa

Alla sua età - quanto spera di campare Giovanni

Ti sei domandato:

E io che non ho osato

Replicare alcunché

Nemmeno tra me e me - sui due piedi

Per quanto approssimato tentando un calcolo

Ma una di queste notti uno di quei momenti

A mezza via dal sonno che il pensiero

Pavida navicella osa sfidare

L'ignoto del suo mare

Mentre con unghie e denti

Si aggrappa per sparire

Il corpo in un effimero altrimenti

Una di queste notti quasi un nulla

Mi è giunto tardiva risposta:

Sunamita fanciulla sgusciata da sotto il guanciale

A scaldarmi ben che non sono

Quel re della Bibbia io

Re di nessun reame sussurrando

Che incominciare è il nostro unico modo di esserci

E dunque ho amato l'inizio

La voglia di essere accolto

Nei bei luoghi diversi invidïati

Nell'aldiquà del gelido cristallo quotidiano

La balbettata lingua silenziosa

Plaghe remote le mie mani brancolando

Oggetti fuor della vista

A ogni scoperta tu sai

Ride e fa festa l'infante rassicurato

Passo a passo movendo al suo adempiersi -

Si distrugge così nel costruire

L'animale adulto

Che mai più ricomincia:

Io invento questo inizio al mio finire.

Sotto il Vòlto

I sogni e i versi, detài da altre
Più sui che i altri - vol deventar.
Giacomo Noventa

I

Ci abituiamo presto ai nuovi muri

Ognuna dalla sua tana pensile

Scendono alle mani le cose vengono a noi

Io stesso gli occhi semichiusi al mattino

Da lunga insonnia solerte agli atti del rito

Moka al fornello metto a frutto l'intervallo

Teso all'imminente gorgogliare

Un uomo vecchio non è che una misera cosa

Albero spoglio del suo vanto - uscire

Al quotidiano ufficio rincasare

Reduce di pensosi negozi:

Dunque non troppe domande povero caro

Lasciatelo cogitare - lui solo

Sa ciò che è giusto

Remoto ieri, però eccomi oggi

Yesman completo - «sì, subito!» come una serva

Negli anni Trenta in casa di minimi impiegati

Povera più di tutti

I poveri innocua bestiola - macché poeta e poeta!

Risciacquo i piatti, ti aiuto a piegare un lenzuolo

La colpa è mia se non combacia agli orli

II

Avessi la sapienza

Non dico di Salomone ma almeno

Direi la calma perizia

Dei due che Sotto il Vòlto

Angelo per la paga, Lorenzo per passione

Apprestano un portone

Per questo ingresso vano al buio e al nulla

Murando uno lo stipite fissando i cardini e l'altro

Chiodando una lamiera al frusto legno

Riesumato da una sua campagna

Entrambi con fierezza dell'opera

Mossi da vivi gesti assunti in loro

Dal profondo di secoli vivranno

Per nuove mani d'opere venture

III

Misero è l'uomo che ha bisogno di soccorso

Misero chi si accorge

Quanto non vale ricchezza

Di immagini maestà di pensieri

Versata in libri di storia:

Avessi io gli atti infiniti

Del tuo lavoro a castigare la mia boria

«Io non sto bene ancora, non starò

Mai più bene» - è tardi per entrare

Dentro ogni gesto tuo di quarant'anni

Dove fu amore vero il trafficare

Ad accudirmi a farmi cena e pranzo

Tenuti a bada i figli per lasciarmi recitare

A me stesso una vita di romanzo

Io che pietà e conforto

Invoco adesso - io

Trascorso accanto a te come da morto

Vecchia moglie spremuta

Che interrogavi la tua angoscia muta:

Perché fossero mie

Tutte le tue poesie

La Serra, 3-7 settembre 1992

Somiglianze

Provare a domandargli: scusi Lei

Fu mai in collegio a Parma

Risponderebbe crudamente no

Colei che apparve tuo benigno karma

O altra cosa indiana dove esista

La speranza lontana

Che nei cieli del tempo una carezza

Erra con ansia del volto che l'ama

Tu minuscola viva ghirlandetta

Fra defunte scolare

In gruppo nella foto con un nastro

Sopra il grembiule a mo' di scapolare

Non questa che vestita alla moderna

I suoi neri capelli

Con scaltra noncuranza ora ravvia

Ma tuoi scattando gli occhi alteri e belli

Tuo quello sguardo di cui parve mia

La serietà graziosa

Fisso sotto quel vetro da quel giorno

Che fissò un lampo altra festiva posa

E tuo il non esatto profilo e forse

La figura benché

Calcolando l'età che tu sparisti

Dimostra tre o più estati più di te

Guardavo e mi celavo alla sua vista

Tremando al desiderio

Che mi riconoscesse avendo dentro

In me come una spina d'adulterio

Da lei sventatamente già commesso

Per quella bambinetta

Che guastava l'incanto ed un marito

Che di mettersi a pranzo aveva fretta

Io che ero lì sul punto di fermarti:

Cosa fai dove vai

Tu che hai più di cent'anni e qui tuo figlio

Quasi settanta e perso nel suo mai

Ognuno quasi ognuno

Ognuno quasi ognuno egli diceva

Cresce in sé una laura una mandetta

Della mente imperfetta

Speranza inassuvita

E non sfiorata piuma ombra ghermita

Inafferrata stella di raggiro

Mai chiusa in un sospiro

Mai vocata in un nome

Spiraglio di prigione

Donde più scappi e sempre più rimani

Domani del domani

Vuoto che in vuoto cade:

Così chi fruga Dio fruga una madre

Nella fossa in cenere perduta

La vana vita arcigna

La matrigna incompiuta

da Empie stelle

Angelus

Ahi pievi romaniche

Primavera romanza - friulane

Icòne - e pio memento

Ahi Angelus ahi rena di canali

Da l'una e l'altra chiesa

Sospinto a un cieco limo di marrane

Strano e straniero ospite

Più che in te nel castigo fu l'offesa

E nel perverso teatro al quale ti addussero

Ebbrezza di applausi e seguaci

La tua passione - amore e disamore

Popolo di se stesso traditore:

Io qui rauca memoria del nodo

Che per noi liberava la tua voce

Con vecchie dita uno storto chiodo

Svelgo dalla tua croce

da Eresia della sera

Novembrina

Per insonnie nel tempo che si compie

Di vita eterna il tuo settantesimo anno

E non da mio volere che forse tu lo decidi

Dal tuo mai più riemersa quando in me

Trabocchi notturne lacrime:

Tu mia spenta lucerna e vaghezza di cenere

Però non dimenticartene - portami

Dalla scuola il gessetto col quale navi e navi

Disegnavamo alla piccola lavagna più i nostri

Cancellabili nomi - non lasciarmi

Qui adesso senza un dove onde impetrare asilo:

Ahi novembrina ahi rovo di tenerezza

8 novembre 1927

8 novembre 1997

Da vecchio

Da vecchio zoppicava come Ignazio

Ma senza gloria di una sua Pamplona

Peregrinante per amaro dazio

Sulla diversa via presa per buona

[Inedito]

Save our Souls

Salvate le nostre anime:

Indi e quindi il segnale

Passando senza nessuna

In lingua viva risposta -

Chioccolìo del morto auricolare

Ai bordi del disastro

Durando a quelle il nerissimo

Lontanarsi come nei mari della Luna

23-24 ottobre 1998



Dall'antologia di Segre-Ossola.


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