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Venturini, Maria - Dizionario Della Felicità M@tley Libro Libri

Italiana


Maria Venturini

Dizionario delle felicità




ppoii

Piero Lacaila Editor


dix-sp J Mauro Mas

,<8 Fiero Liicaita Editore - Manduria-Bari-Rum a Sede legale; Manduria - Vico degli Albanesi, 4 Tel.-Fax 099/9711124


T





DIALOGO CON UN LETTORE

Lettore - Un dizionario suJia felicità? Se devo essere
sincero ho idea che Lei prenda l'argomento un po' alla
grande, con una buona dose di presunzione.

Autore - Lei mi sospetta di essere un aspirante auto­
re di operette morali. Mi vuoi dare una buona ragione
perché non si debba affrontare questo tema?

Una ragione di modestia, per esempio. Ne hanno
parlato già tanti, e illustri.

Non intendo mettermi sulle orme di Piatone o Se­
neca, Le faccio tuttavia notare che siamo circondati da
gente infelice, stressata, depressa o euforica per motivi
di una sconcertante banalità. Gente che ingurgita pillole
per dormire, per stare sveglia, per far carriera, per di­
menticare, per ricordare.... Le sembra normale tutto ciò?

- D'accordo, non mi pare tuttavia che sia necessario scomodare una parola sacra come felicità,

Mi scusi ma non sono d'accordo: non c'è nulla di
sacro nella parola felicità. Tutti desideriamo essere feli­
ci; gli americani hanno addirittura ipotecato la loro cre­
dibilità societaria sul diritto alla felicità per ogni cittadi­
no, diritto sancito netta Carta Costituzionale, e non vedo
cosa vi sia di sacro e intoccabile in un proposito condi­
viso da aìmeno duecento mììioni di persone, per iegge,
e dal resto dell'umanità, per consuetudine.

Per l'appunto: su un tema dì tale vastità Lei preten­
de di avere ancora qualcosa da dire? Con tutta la sag­
gezza messa per iscritto, in argomento, si potrebbe co­
struire ex novo una biblioteca grande quanto la Herzia-
na di Roma o la Malatestiana di Cesena. E poi sa che Le
dico? Per me "sufficit" il mirabile aforisma epicureo: una
delle ragioni per cui la gente non è felice nasce dal fatto
che immagina di non poterlo essere.

Lei porta acqua al mulino della mia ambizione: aiu­
tare l'immaginazione della gente, inventarsi le ragioni
della felicità. Non mi elargisca quello sguardo di scetti­
co compatimento. Lei mi ha già classificato fra ì tipi che
predicano una felicità in chiave riduttiva: qualcosa di più
del "chi si accontenta gode" e qualcosa di meno "del­
l'avere tutto e subito". Non voglio insegnare niente a
nessuno, soltanto riflettere insieme ai miei lettori sulla
grandissima questione di metodo posta da Epicuro: per
essere felici bisogna credere di poterlo essere e ogni tem­
po, luogo, epoca, propone daccapo nuovi ostacoli a que­
sto sforzo di immaginazione.

Sarebbe a dire?

Sarebbe a dire che nel Medio Evo si era infelici an­
che per ragioni metafisiche, seppur in mezzo a guerre e
pestilenze - Tannhauser non si dava pace finché il Papa
non gli perdonò il suo lungo soggiorno nel letto di Ve­
nere - oggi con automobili climatizzate e guerre teletra­
smesse che si metabolizzano a tavola fra il primo e il
dessert, si può essere infelici per molto meno, per il pos­
sesso di uno swatch.

È un punto di vista interessante, anche se non del
tutto nuovo. Su questa questione Gesù Cristo e Marx la
pensavano quasi allo stesso modo: non è il possesso che
da La felicità.

Ma Le dirò di più/ caro signore: più si vive nell'ab­
bondanza più si è soggetti a rischio, quanto a felicità.
Pensi alle enormi possibilità (non sempre colte, s'inten­
de) di essere felice, per un povero tra i poveri, e invece
alla tempesta di confronti, competizioni, sussulti di in­
vidia, senso di privazione, di chi vive in una società ric­
ca, televisiva e dedita al consumo, senza la possibilità di
accedere a tutti i beni che gli passano sotto gli occhi.

Visto che Lei è così deciso, non mi resta che augu­
rarla buon lavoro.

Ma Lei, almeno, lo comprerà il mio libro, quando
sarà stampato?

Non so, a me pare di essere felice; non vorrei che Lei mi facesse venire dei dubbi.



Abitudini

E' bello averne ma è opportuno non esserne schiavi. L'abitudine è una pausa nello stress quotidiano del vi­vere; la lettura del giornale, quasi sempre alla stessa ora del mattino, la passeggiata postprandiale o la classica breve pennichella in poltrona ( aut stabis aut lento pede deambulabis secondo l'antica scuola salernitana). Anche il telegiornale in prima serata - se si fa vita cadenzata a orario - può essere una pausa r 15515b15p ilassante, e, a meno di notizie disastrose, velatamente soporifera con i volti dei soliti noti in cerca di parole nuove mentre i microfoni dei cronisti ne tampinano le facce come le sonde delle ecografie mediche. Ci sono abitudini più complesse; ce­nare tutti i sabati con fratelli o sorelle, andare a messa tutti i venerdì, giocare a carte tutti i giovedì sera, andare a pesca tutte le domeniche mattina. Ci sono le abitudini gradevolmente viziose: prendere l'aperitivo prima di cena - se il fegato lo consente -, fumare la prima sigaret­ta dopo il primo caffè - all'alba -, due pagine di lettura erotica, la sera, prima di dormire. Nulla da eccepire: ognuno ha le sue abitudini e se le tenga. Una sola racco­mandazione: non trasformare questi angoli di piccole

riposanti certezze in appuntamenti inderogabili. Se ci invitano per un week-end, ci capita l'opportunità di un viaggio, facciamo un incontro piacevole in orario impre­visto, mandiamo al diavolo aperitivo, passeggiata, fra­telli e sorelle, e, naturalmente, telegiornale. Le occasioni di trasgressione, nella vita, a voler dare ascolto al nostro super io e ai buoni insegnamenti ricevuti sull'altrui pace e libertà da rispettare, non sono poi tante; trasgredire alle nostre buone o cattive abitudini può essere dunque un bell'esercizio di fantasia, e una via di fuga dall'abitudi­ne trasformata in schiavitù.

Amare

La prima volta fa paura: se ci coglie in un momento di felice autosufficienza come non avvertire lo strappo da se stessi, l'improvvisa dipendenza della nostra felici­tà da qualcuno che è altro da noi? Altri amori verranno, altre insicurezze, gioie ed amarezze, ma non più quella lacerazione primordiale di un unicum - anima e corpo -che avevamo faticosamente ricomposto attraverso le dolcezze e i travagli dell'adolescenza. Il pensiero di un futuro che non ci appartiene più interamente ci colpisce come uno schiaffo. Assenza, lontananza, privazione, at­tesa: parole che entrano con violenza nel vocabolario dell'anima, e rendono gravide di paura le dolcezze e gli smarrimenti dei primi abbandoni amorosi. Forse la vita, più avanti, ci renderà forti. Ma è bello non dimenticare, se li abbiamo vissuti con sincero stupore, quei primi ir­ripetibili turbamenti.

Amarsi

Non abbiate paura di amarvi, fino all'autocitazione al narcisismo più sfacciato. Perché non dovreste ? Avere un grande affetto e anche una bella stima per se stessi è fonte di straordinarie risorse nell'affrontare la vita: più coraggio, più iniziativa, meno incertezza nel decidere e agire. Amatevi fino al punto di non raccontarvi troppe bugie sulle vostre debolezze e sui vostri errori. Sarebbe un modo sbagliato di amarvi. Tale lo giudichereste se rivolto ad altri, e tale lo dovete sentire, con Ja stessa chia­rezza e severità verso voi stessi. Triste e imperfetto l'amore che si costrìnge a non vedere, per sottrarsi alla dolorosa scoperta di qualche piega dell'anima un po' acciaccata. Eppure non ci vuoi molto per dedicare a se stessi un amore vero e limpido: basta attraversare le neb­bie della paura, fare un inventario scrupoloso dei propri vizi con altrettanta notarile sincerità di quella impiegata per raccontarsi - come generalmente si preferisce - le proprie virtù. Con l'aggiunta di un pizzico di ironia e di indulgenza non autogiustificatoria si ottiene una crea­tura di disarmante bellezza inferiore. Come non restar­ne affascinati, e anche in allegria? Amatevi cosi, se ne siete capaci.

Amori trascorsi

Pochi o tanti che siano fanno parte della nostra vita; è sciocco pentirsene, covare risentimenti, avere rimpian­ti. Se qualcosa non ha funzionato nelle nostre vicende sentimentali l'uso migliore che possiamo farne è quello di riesaminarle, magari con il distacco della lontananza

per conoscere un po' meglio noi stessi e anche gli esseri che abbiamo amato. 11 passato è il nostro incancellabile teatro di vita. Vi si accumulano, nel tempo, tesori di cre­scita della nostra sensibilità - nella gioia e nella sofferen­za - e anche dagli aspetti più sgradevoli delle nostre esperienze è possibile trarre ricchezza, È cosa sciocca, perciò, disprezzare o condannare gli amori del passato, parte cosi viva di noi stessi, ed è inelegante fare antipa­tici confronti a favore di quello che si sta vivendo; po­trebbe trattarsi di un amore destinato anch'esso a tra­scorrere. Conviene adottare nei confronti delle nostre avventure o disavventure amorose una linea morbida, senza troppa indulgenza; che il nostro esame di coscien­za sia severo ma non privo di un certo fair play verso noi stessi. Se non abbiamo grandi cattiverie da perdo­narci o da farci perdonare, se all'esperienza amorosa ci siamo avvicinati con sincerità, se generosamente abbia­mo amato e sofferto, accogliamo con simpatia e custo­diamo con affetto nella memoria, queste parti turbinose ma affascinanti della nostra vita. Se il partner del nostro amore presente non si rende conto che egli ama un esse­re cresciuto e maturato attraverso tante controverse esperienze sarà il caso di trasferirlo nella lista dei "tra­scorsi". Anche da lui avremo imparato qualcosa: che si può decidere di restare soli piuttosto che male accom­pagnati.

Aprile

Scomodo quando piove, seccante per chi soffre d'asma o d'allergia, non si pagano tasse, né bolli. Tal-

volta è attraversato da festività pasquali, meno tristi di quelle natalizie anche se si è "single". Aprile è un mese di confine per ìa meteorologia e la campagna. Sappiate cogliere la sua precaria bellezza e fate una passeggiata in un parco o in un viale qualsiasi della vostra città. Al­zate gli occhi verso gli alberi: vi farà tenerezza osservare le foglie giovani di un verde chiaro e trasparente spun­tate quasi all'improvviso intorno a rami nodosi e rustici, talora resi scuri e cupi dalla pioggia. E così pure non vi lasceranno indifferenti tutti quei bianchi fiocchi che va­gano nell'aria, portati dal vento a mete indefinite, o a perdersi nel nulla. Lasciatevi emozionare da questa sfac­ciata, quasi violenta fertilità della natura, non cammina­te torpidi e distratti in mezzo a tanta creatività. Fate che aprile non passi invano nella vostra vita.

Archeologia

Beato chi scava nel passato: è uno che conquista mil­le occhi per leggere il presente. La vita gli sarà più lieve, le preoccupazioni meno assillanti. Le ansie dell'oggi non avranno più quella tinta plumbea e definitiva che afflig­ge coloro che non riescono a vedere al di là del loro naso. Chi scava nel passato si troverà a navigare nel grande fiume della storia, in compagnia di tanti che prima di lui hanno goduto sofferto amato studiato faticato cono­sciuto. Vite e vite con la loro ricchezza e gioia, dolore e povertà verranno a soccorrere la sua, gli regaleranno un senso della relatività che non è solo consolazione filoso-fica ma vera attitudine a badare a se stessi con un pizzi­co di equilibrio in più. Se non l'avete mai fatto aprite un

libro di archeologia: scoprirete quanta commozione può

suscitare uno sguardo nelle tazze degli assiro-babilone­si o nei gioielli di una signora egiziana, essi vi verranno incontro con i loro piccoli grandi problemi, ìe loro guer­re, i loro momenti di serenità scanditi da oggetti che pal­pitano ancora di quelle millenarie emozioni. Vi sentirete piccoli e grandi insieme, partecipi e debitori di qualcosa di cui avvertirete lo straordinario fascino. Insomma non sarete più così desolatamente soli, come vi eravate ras­segnati a credere.

Architetti

Cercate di non averne bisogno, ma se proprio sarà necessario ricorrere ad un discendente dalla nobile scuo­la che dalie Ville Venete a San Pietroburgo ha illustrato l'Italia della pietra e del mattone nel mondo, lasciate che vi dia alcuni buoni consigli: 1. Non scegliete il vostro architetto fra i frequentatori di comuni salotti - voi po­treste giudicarlo benevolmente da qualche nobile con­versare ed egli potrebbe scambiarvi per un Rockfeller dei giro di amici dal cospicuo conto in banca; equivoco de­stinato a produrre una evidente miscela esplosiva, ma­gari a scoppio ritardato. 2. Osservatelo: se parla con aria troppo ispirata della Bahaus, se prende l'aereo in conti­nuazione per visitare mostre dì Alvar Aalto, Gropius ecc. significa due cose: i suoi committenti ideali sarebbero, se potesse, Papa Giulio II e l'antica illustre Casata dei Medici. Inoltre ha un tenore di vita che prelude a parcel­le incompatibili con le vostre tasche. 3. Nel conversare sulla progettazione del vostro futuro nido o castello che

sia, non confidategli particolari intimi della vostra fami­glia, evitate anche lettere elogiative a metà dell'opera nell'intento eli fermare la voragine di spese che si è aper­ta ai vostri piedi e indurio a risparmiarvi la bancarotta: in tribunale diventano prove a vostro carico. In tutti que­sti casi i patti poco chiari non vi risparmieranno l'inimi­cizia lunga. E dunque, se proprio dovete costruire, ri­strutturare, rabberciare un casale, un palazzo, un appar­tamento in condominio e il capomastro non. vi basta, an­date da un progettista sconosciuto, discutete tutto pri­ma, in modo becero e taccagno, mettete nero su bianco e mandate il vostro angelo custode ad un corso accelerato di computo metrico. Aumenteranno , grazie a questi ac­corgimenti, le probabilità di godervi felicemente le vo­stre quattro mura.

Arredare

Voce del verbo disperarsi nel tentativo di conciliare volere e potere. Come possedere mobili di antiquariato senza ridursi alia fame? Come avvalersi del consiglio dell'arredatore senza soccombere all'arrivo della parcel­la? Come ricorrere ad un intervento globale "chiavi in mano" dei mobilieri della Brianza senza finire prima o poi nel bollettino dei protesti cambiari? Come procurar­si uno straccio di antenato in crosta ottocentesca senza impegnare gli ori di famiglia al Monte di Pietà? È im­proprio definire la casa Io specchio dell'anima ma certa­mente le quattro mura che racchiudono parte della no­stra privacy parlano di noi attraverso gli oggetti che vi accumuliamo nel tempo. C'è chi conserva tutto minu-

ziosamente e in armonioso disordine si costruisce una casa - cuccia, comoda e personale, chi rimane schiaccia­to dal peso degli antenati e vive in un museo, chi siste­ma libri e librerie a metro quadrato e il resto secondo catalogo, chi rifugge dal mobile che abbia meno di cen-tocinquant'anni, chi espone in vetrina l'oggettistica ri­cevuta in regalo in epoca di potere, chi i diplomi, le foto in compagnia di uomini illustri, chi si circonda di mobì­li e oggetti firmati da designers di chiara fama ottenen­do un magnifico effetto casa - negozio; ci sono giovani coppie che non pronunciano il fatidico sì finché non han­no corredato il nido d'amore di tutto quanto di dovere, fino all'ultimo contenitore per spille da balia, ve ne sono che celebrano il primo venticinquennio di convivenza con un fazzoletto di battista che fa da diffusore della lampada in salotto, in attesa dell'introvabile paralume di Le Corbusier. Un campionario di varia umanità si di­pana agli occhi di chi osserva le case e il loro modo di essere arredate; basta saper leggere. Quanto al modo migliore di affrontare il problema non esistono consigli da dare: quello di essere se stessi nel dedicarsi al maquil­lage della propria tana è già da tutti ampiamente appli­cato ed è sterile lamentazione notare che gli altri, con affetto o con cattiveria, ne approfittano per classificarci e in qualche modo definirci.

Artemisia

Ebbe in sorte, da ragazza, una brutta avventura per mano di un giovinastro che la stuprò e che si aggirava nella bottega del padre, pittore di buona fama. Non fu

una storia di silenziosa e subì violenza: ne seguì un pro­cesso che rese pubblico l'orrore e la vergogna e indusse, forse anche per questo, la giovane anch'essa pittrice, e ben presto di fama, a frequenti migrazioni lungo le città dove fiorivano le arti, presso le Corti, le Curie, i ricchi committenti privati. Artemisia, figlia di Orazio Gentile­schi, nasce a Roma nel 1598; si ignora, secondo Anna Banti - sua biografa appassionata - l'anno della morte. La prima metà del Seicento si arricchisce delle sue ope­re: raccolgono e la onorano Roma, Napoli, Firenze, Ge­nova, Marsiglia, Parigi, Londra,

Ebbe gloria, danaro, un marito che le insegnò a scri­vere, ma suoi erano il segno e il colore, la rappresenta­zione pittorica dei mondo, raramente gioiosa, più spes­so corrusca e improntata con straordinaria vividezza alle storie più sanguigne dell'Antico Testamento. Dimenti­cata fino alla riscoperta critica dello storico dell'arte Ro­berto Longhi, solo poche decine di anni fa, Artemisia è la testimonianza di una donna che ha reagito con osti­nato amore per la vita ad un delitto che ferisce profon­damente la femminilità. Non so se la sua sia stata una vita felice; certamente per un artista l'emozione creati­va, la fatica che vi si accompagna sono momenti assai vicini ad una felicità che miracolosamente, misteriosa­mente, si riverbera su chi guarda e ammira.

Asma

Ci sono felicità che scaturiscono improvvise ed im­previste da esperienze dolorose. La guarigione propria o di una persona cara da una malattia grave, un nuovo amore alla fine di una storia sentimentale molto acciden-

tata, un'offerta rii lavoro riopo un traumatico licenzia­mento; insomma, lo stress della cattiva sorte subita, agi­sce da moltiplicatore del buon evento in arrivo, ne esal­ta la goriibilità. Sempre che non si compia l'imperdona­bile errore di affezionarsi troppo al ricordo delie proprie disgrazie.

Anche uscire indenni da un attacco d'asma più pre­occupante del solito, riacchiappare improvvisamente l'aria, che si era intrappolata negli alveoli inerti dei bron­chi e sfuggiva ad ogni controllo della niente che "voleva ma non poteva respirare" può procurarci momenti di felicità vertiginose. Per non dire del sassolino nella scar­pa opportunamente rimosso, del dente cariato abbando­nato al suo destino durante una seduta dal dentista, del posto a sedere raggiunto dopo lungo travaglio in tram affollatissimo, ecc. ecc. Non che siano queste felicità par­ticolarmente brillanti, ma ne capitano parecchie nella giornata di ciascuno, in una vita contrassegnata da alti e bassi, chiaroscuri, toni bianchi e neri, eventi prò e con­tro. Tanto vale prendere queste docce scozzesi per il ver­so migliore: sono brandelli di felicità da non lasciar ca­dere. Alla lunga ci confezioneranno addosso un abito mentale di ottimo taglio.

Bagno di Romagna

Deve essere stata da sempre una stazione dì sosta e riposo per uomini e cavalli questa località incuneata, a cinquecento metri sul livello del mare, fra le montagne deLl'Appennino Tosco Emiliano, a metà strada dalle fo­reste di Camaldoli e Campigna e a breve distanza da Bertinoro e dalle altre colline vitivinicole romagnole.

Perciò si sono felicemente incontrate in questo luogo

l'eleganza del vivere toscano e la fantasiosa cordialità dell'ospitale Romagna. L'eleganza di Bagno si chiama discrezione: nell'assetto del lungo fiume per le passeg­giate degli ospiti turisti, nella sistemazione del bel par­co comunale, nella semplicità architettonica dello stabi­limento termale, nella creazione di deliziose e agevoli "passeggiate della salute". Il pane è rimasto senza sale e l'amore per il buon vino - comune alle due regioni - si è ben conservato; intatta la tradizione della pasta fatta in casa a colpi di mattarello - anche nella ristorazione col­lettiva - accentuato il gusto per i mille raffinati prodotti in apicoltura - forse anche merito della vicina scuola della farmacia camaldolese, affettuosa l'accoglienza del­l'ospite, familiare e al tempo stesso orgogliosa di voler dare il meglio secondo tradizione. Fiorentini gli illustri frequentatori delle antiche ferme di Bagno, da Benvenu­to Cellini a molti rappresentanti della famiglia Medici. Vengono dalla profondità della montagna - milìecinque-cento metri - le calde acque che hanno segnato il destino di questo piccolo centro appenninico. Vi sono giunte per via piovana ed è stato così secolare il percorso fino a quella profondità, e l'arricchimento minerale e la risali­ta, anch'essa lentissima, che il ciclo completo dura sette­cento anni. Un tale calcolo, affidato ai geologi - scienzia­ti e insieme poeti del sottosuolo - ci dice che nelle pisci­ne termali di Bagno - oggi - scorre acqua purissima sce­sa dal cielo in epoca giottesca o nel bel mezzo del dolce stil nuovo del Petrarca e di Dante Alighieri. Ed è usando le stesse storielle acque che i cittadini di Bagno decisero alia fine degli anni 70 che - con un po' di fantasia tosco-romagnola e un po' di quattrini italiani e comunitari - si poteva tentare un impianto di teleriscatdamento con lo

" sfruttamento di risorse geotermiche a bassa entalpia". Ci sono riusciti fin dal 1987, in via sperimentale, e dal 1990 in via definitiva. Il vezzoso camino di una moder-nissima centrale geotermica segnala la presenza di un impianto di energia a basso costo, caso isolato in Euro­pa [accanto ai noti soffioni boraciferi islandesi] di utiliz­zo di risorse naturali a fini termici, e per il quale Bagno non è famosa e conosciuta quanto meriterebbe. Questo gioiello della tecnica, non molto più grande di un como­do ufficio postale di paese - raccoglie trasforma e distri­buisce le acque profonde attraverso undici chilometri di rete, duecentocinquanta utenze invernali per mille abi­tanti - che si quadruplicano in stagione termale, mantie­ne in costante equilìbrio orari temperature utenze, tra­mite computer, ha eliminato tutte le eventuali fonti di inquinamento termico da riscaldamento, ha quasi azze­rato ì costi comunali di gestione termica mantenendo quelli dei privati a livello pressoché allineato al resto d'Italia. E bello pensare a quanta immaginazione unita a sano pragmatismo sia occorsa a questa antica munici­palità italica che affonda le sue radici in epoca romana, per assemblare tutta la burocrazia e la tecnologia neces-sarie ad un risultato così speciale. Ecco un motivo in più perché susciti interesse e curiosità un contatto con que­sti luoghi - magari non nei momenti più affollati per le cure termali che coincidono con l'estate. Ma nelle sta­gioni di mezzo, quando l'aria è ancora un po' cruda, ( o l'estate in lento disfacimento) la neve si affaccia sui pic­chi più alti, i venti appenninici si infilano subdoli nelle vie deserte con le botteghe ancora aperte per gli ultimi visitatori d'autunno [o i primi di aprile e maggio] e il grande fratello che arriva a quarantacinque gradi di ca­lore da sette secoli dì distanza veglia sulle ultime [o le

prime] saune di mezza stagione e si prepara a governa­re, a temperatura costante, il letargo invernale.

Bevagli a

Chi è arrivato in questo delizioso borgo, di fondo val­le, in Umbria - che nelle carte comunali, e giustamente, si fregia del titolo di città, per antiche tradizioni e vasti-tà dt territorio circostante - è rimasto incantato dalla sua compatta bellezza di cittadella murata. Bevagna è stata per molti, italiani e non, una scoperta prima di tutto este­tica - una piazza e altri angoli medioevali indimentica­bili - ma una scoperta tardiva, diluita nel tempo, che non autorizza sospetto alcuno di colonizzazione da parte di cittadini in fuga dalle turbolenze metropolitane. Poi si sono accese altre curiosità sullo stile di vita del luogo: una rispettosa memoria per alcuni uomini illustri del proprio passato, un puntiglioso e sano rapporto con la propria amministrazione comunale - con la polizia ur­bana in prima linea a raccogliere segnalazioni, proteste, appelli di ogni genere di quotidiane piccole emergenze - un affettuoso e ipercritico amore per la banda cittadi­na, la rievocazione medioevale del Mercato delle Gaite che riproduce un po' di storia del passato, un gioco che si ripete a giugno di ogni anno, sempre coinvolgente, forse cresciuto troppo per continuare ad essere un gio­co. È bello entrare in questo mondo un po' rarefatto, sen­za esagerare: la vita di una piccola comunità ricorda le gioie e le nefandezze della famiglia - è bene saperne qualcosa, è male saperne troppo.

Bevagna è emblematica di un'Italia verace - con i suoi e Le sue virtù - che non emerge nella banalità del

VLZl

quotidiano teatro televisivo , surrogato volgare dell'im­magine vera del Paese - è uno dei tanti microcosmi che vive lavora soffre e si diverte nella normalità. Una nor­malità che solo il travisamento multimediale ha relega­to ad un ruolo di secondo piano ma che in realtà è la forza strutturale - economica e civile - di una nazione. Per questa ragione - io che ho scelto dì vivere in questo luogo - pavento troppe incursioni televisive, troppa Luce della ribalta, molto di più dell'arrivo di qualche svizze­ro o di qualche altro cittadino del mio genere, che ap­proda a questo porto tranquillo. Noi metropolitani stan­chi non faremo danno; semmai ci lasceremo contagiare un poco dalla vita del borgo. Ciò che i suoi abitanti non hanno ancora apprezzato abbastanza è una tranquillità che non è affatto isolamento. Bevagna, come tanti altri centri minori dell'Italia delle cento città, vive immersa in isole metropolitane, fittamente abitate e attraversate da quotidiane e facili comunicazioni: si studia, si lavora, si acquista, ci si diverte, selezionando i luoghi, organiz­zando il tempo e il movimento. La felicità del borgo non è nel vivere chiusi ma nell'avere tranquillità e insieme comunicazione, a portata di mano. Inutile invocare il fra­stuono in loco come diversivo; ce n'è già tanto intorno -a distanze ravvicinate che qualsiasi abitante di Los An-geles non si stupirebbe -.

Tranquilli escursionisti in bicicletta solcano d'estate gli antichi acciottolati. Bevagna è meta preferita dì gi­tanti ecologici, anche per la sua configurazione pianeg­giante, la confluenza di più corsi d'acqua, fino al lettera­rio Clitunno. Tante acque ricche di vapori invernali le hanno meritato - quando èva fiorente città romana, con le sue ferme e il suo teatro - l'appellativo di "caliginosa Mevania" e tale ancor oggi è considerata dai pochi che

la conoscono. I quali crescono di giorno in giorno e ora­mai sono numerose le comitive pellegrine che dopo le rituali visite al Santo di Assisi, alle storie francescane di Benozzo Gozzoli a Montefalco, alla splendida Cappella dipinta a Spello dal Pinturicchio, percorrono l'antica via Flaminia oggi corso principale della cittadella murata. Curiose di tutto, anche, se aperto, del grazioso Teatro Comunale, un gioiello ottocentesco inserito in un antico palazzo del milleduecento che avrebbe provocato brivi­di di orrore a un'Italia Nostra dell'epoca, ma di cui, oggi, i cittadini di Bevagna vanno giustamente orgogliosi. E non mancano i dotti e santi pellegrini di apprezzare -fra una visita e l'altra - quei sani prodotti della terra che la campagna, appena fuori le mura, offre al viandante: olio, vino, farro, lenticchia. Ecco dunque uno squarcio di vita felice; è per poco, dunque approfittatene subito perché il Dizionario diventerà un best-seller e le folle invaderanno questo luogo di pace. In caso contrario - se pochi ed eletti resteranno i miei lettori - avrò felicemen­te conservato la tranquillità del mio buon ritiro a scapi­to delle mie fortune letterarie. Pazienza: non si può ave­re tutto dalla vita.

Bollicine

Non voglio provocare un eccessivo consumo di alco­lici ma solo spendere due parole a favore del vino con bollicine, champagne per i francesi, " metodo tradizio­nale" per lo spumante di pregio italiano, [al quale è sta­to negato l'uso dell'espressione metodo champenois dai viticultori d'oltralpe] spumante metodo charmat [matu­razione in grandi otri anziché in bottiglia]. Ce n'è per

tutti i gusti e per tutte Je tasche; con un po' di oculatezza nella scelta si possono gustare bollicine di qualità senza alleggerire troppo il portafoglio consumando prodotti nazionali, e non necessariamente di grandi marche; la rete di piccoli e raffinati produttori italiani di bollicine si sta estendendo. Vedo i puristi del brut francese che ar­ricciano il naso di fronte a tale eventualità; buon per loro che hanno soldi da spendere e, si spera, una solida com­petenza per destreggiarsi nella scelta di qualità fra le numerose etichette della concorrenza. Si tratti del classi­co brut o secco - vino per cultori della bollicina assoluta, senza interferenze zuccherine - del demi-sec o dell'ama­bile [giudicati con sufficienza dagli intenditori, tuttavia presenti sul mercato] - la mia raccomandazione è la se­guente; abbiate sempre in frigo una bottiglia con bollici-ne, non consideratela una bevanda riservata alle feste comandate, ai compleanni, agli aruiiversari. Quelle be­vute occasionali, per lo più consumate in grande chias­so e turbativa festaiola, accompagnate da pasti panta­gruelici, con vini spumanti impropriamente relegati a fine pasto, non rendono giustizia alla qualità e al piace­re delle bollicine. Lontano dalla pazza folla, nell'intimi­tà di un incontro amoroso, con la complicità di una con­versazione amichevole fra pochi, a mo' di aperitivo in attesa di una riunione conviviale, alla fine di una inten­sa giornata di lavoro, o quando sì e quasi al compimen­to di qualcosa di impegnativo e serve un momento di relax per lo sprint finale, sono questi i momenti per stap­pare la bottiglia e sorseggiare a mente leggera e papille gustative non contaminate, questo il momento per av­vertire in pieno tutto il solleticante piacere della bollici­na e del profumo del vino che l'accompagna. Anche per affrontare, seduti in poltrona, un programma televisivo

un po' cretino o un po' noioso, il calice, rigorosamente flute può giovare: allevierà la sofferenza se si rimane svegli, favorirà il sonno se la trasmissione è insopporta­bile. Questa mia perorazione non venga considerata vi­ziosa: essa risponde al desiderio di suggerire un uso meno ruspante di una delle migliori invenzioni dell'uo­mo dopo che Noè scoprì che dall'uva si poteva trarre una bevanda esilarante, e gli enologi ne proseguirono l'opera.

Cajkovskij Piotr Il'ja

In molti lo abbiamo amato in gioventù. Ma dopo, dopo non più. La nostra educazione sentimentale e quel­la musicale avevano raggiunto misure ed equilibri di­versi; come non rinnegare una musica così intensamen­te legata ai nostri abbandoni adolescenziali ? Eppure, riascoltarlo negli anni '90 di questo secolo, eseguito da quelle orchestre russe che la caduta del muro di Berlino ha reso felicemente nomadi nel mondo occidentale, giunge quasi nuovo e sorprendente al nostro orecchio. Niente cedimenti romantici e una quasi violenta punti­gliosa fedeltà interpretativa che non nasconde te corde fragili e nervose di quel linguaggio ma non le accentua.

I cinquantatre anni di vita di Piotr Il'ja Cajkovskij fu­rono largamente attraversati da tempeste nevrotiche al­ternate a brevi bonacce, in una personalità fortemente conflittuale con se stessa e con la propria tendenza omo­sessuale. Una vita difficile, non priva di comportamenti sgradevoli anche verso gli altri, una vita che conobbe anche onori e ricchezze ma non la grande gioia di saper vivere il presente nella sua semplicità: sempre, e in con-

tinuazione soffocata da tormentosi rimpianti per il già accaduto o la frustrante attesa di "altro" da ciò che sta­va accadendo. Uno che tuttavia desiderava liberare la propria musica dai suoi personali tormenti - Mozart tra i suoi inarrivabili modelli - ce l'ha lasciata intrisa di tut­ta la sua complessa problematica esistenziale, ma non per questo meno bella, e riscattata dall'autobiografia in splendide forme. Perché parlarne qui? Per riconoscenza a chi, dal profondo del suo disagio di vivere ci ha rega­lato momenti di felicità? Scrivendo del quarto tempo della sua quarta sinfonia alla signora von Meck, a lungo sua mecenate, Piotr Il'ja sfiora le intuizioni di un desti­no che non è il suo "Non è giusto affermare che tutto è tristezza sulla terra; siamo noi stessi la causa della no­stra malinconia. Esistono gioie semplici e prorompenti. Dobbiamo saper gioire dell' altrui felicità. Possiamo con­tinuare a vivere."

Caminetto

Conversazioni confidenziali contribuirono a diffon­dere le ragioni del new-deal roosveltiano dopo la crisi economica del 1929. Giunsero agli americani via radio da un Presidente che parlava accanto al fuoco, rassicu­rante. Dopo di allora il caminetto in politica ha invaso gli schermi televisivi senza tuttavia raggiungere il cari­sma e i risultati di quell'illustre precedente. Accanto al fuoco - a conferma del fascino anche letterario del cami­no - una memorabile performance erotica di Lady Chat-terly e del suo amante, nel romanzo di D.H. Lavvrence. La fiamma di un focolare, vivace o tremula, la brace, lu­minosa o fievole, se ce la troviamo accanto, suscita sen-

timenti diversi ma non lontani da un primo frammento di felicità: sentirsi meno soli. Il camino ci offre anche pia­ceri ghiotti: arrostire salsicce alla brace, patate sotto la cenere, cuocere fagioli nel lento e saporoso "pignatid-do" di coccio. Intorno al fuoco di grandi camini - unica fonte di riscaldamento - ci si riuniva nei lunghi inverni delle società contadine, per raccontarsi storie e anche tra­smettere valori. Camini sontuosi e decorati con arte han­no accompagnato per secoli vite vissute in mezzo a gran­di scomodità da re, principi, baroni e nobili guerrieri, dentro castelli e palazzi pieni di spifferi. Oggi quelle ve­tuste artistiche cornici vengono vendute dagli antiquari ad adornare i camini dei nuovi ricchi dentro case riscal-datissime dai termosifoni. Una ragione c'è, ed è che il camino, prima che l'aria, riscalda il cuore. State all'erta perciò se un amico, un ospite, il vostro futuro marito, dichiara programmaticamente che non accenderà mai un camino in casa svia, o vostra, perché consuma troppa legna o tiene la casa in disordine. Potrebbe essere tirchio, e già questo non è molto simpatico se lo dovete sposare. Ma potrebbe anche avere un cuore arido se non si è mai lasciato tentare dalla fiamma.

Camogli

Camogli ha case dipinte che si affacciano sul porto e gatti che vivono da padroni sui moli e nelle barche dei pescatori. Abitanti che sì muovano abitualmente in uno scenario del genere hanno il comportamento che ci si aspetta da loro: una gentilezza rustica e padrona, molto ligure ma vera. I gatti danno ii viatico alle partenze not­turne delle barche; al ritorno dalla pesca sono ricompen-

sati con minutaglia invendibile - alcuni esigono che sia fresca, altrimenti esibiscono sguardi inequivocabili di rimprovero. Ciò mi è stato detto da un pescatore. Ca-mogli è bellissima nel pallido sole d'inverno. Fin dalla mattina aleggia sul porto un profumo di pane caldo e appena sfornato: viene da una botteguccia che confezio­na pizze farcite con le verdure più singolari, ed una, squisita, con la cipolla. Questo è un ricordo di tanti anni fa e appartiene ai miei luoghi felici. Ho paura dei cam­biamenti che potrei trovare, ma il desiderio di tornare è tanto, e anche la voglia di riprovare la felicità di allora.

Cappelli

Giovani e giovanissime, oggi, se li infilano in testa
con iattanza, sopra lunghi paltò rivaiuzionari che na­
scondono, o appena lasciano intravedere gambe inguai-
nate fino all'orlo di abitucci minimali. Altre li indossano
con allegria sfidando l'aria in sella a un motorino. L'uso
del cappello viene suggerito da lungo tempo con una
insistita e ricorrente presenza sugli scaffali dei grandi
magazzini ma decolla a fatica, nonostante la democra­
tizzazione del prezzo. Sono le donne dell'età di mezzo,
quelle che ricordano le visite un po' cerimoniose delle
loro mamme e nonne nella bottega - salotto della modi­
sta, a resistere alla tentazione. Il cappello sembra loro,
ancora, un capo "importante"; per le tradizionaliste si­
gnifica osare il look della "vera signora", per le ex ses-
santottine è un tradimento del barricadiero passato,
Eppure infilare un cappello in testa ed entrare in sin­
tonia con lui può giovare; scoprirete il vostro salumiere
un po' più cerimonioso, il fioraio più disponibile, se en-

tratc dal mobiliere per chiedere il prezzo di un divano non sarete trattata da perditempo. Potreste persine osa­re l'agenzia immobiliare con la richiesta di informazioni su attico e superattico. Signore, il cappello incute rispet­to, approfittatene! E poi, stende qualche ombra discreta su un volto affaticato, induce vecchi amici a qualche af­fettuoso complimento, finanche un marito distratto po­trebbe guardarvi con occhi diversi. Perché privarvi di queste piccolissime occasioni di felicità?

Cattivi

Talvolta si deve essere cattivi. Con lo sportellista che strapazza la vecchietta lenta a capire il modulario astni­so, con la portiera che maltratta il garzone sovraccarico di spesa da consegnare al quinto piano e gli vieta l'uso dell'ascensore, con il cretino che redarguisce la gattara per una tazza di cibo abbandonata in un angolo di stra­da e non vede le cartacce i cartoni le siringhe i preserva­tivi sparsi sull'acciottolato, con il ferroviere che infieri­sce sullo straniero che non ha "obliterato" il suo ticket prima di salire sul treno, con la commessa che risponde indolente "non ce l'ho" a qualsiasi richiesta che disturbi la sua conversazione al telefono, con l'oste che tratta con sufficienza il turista sprovveduto e desideroso di spie­gazioni su un conto dalle voci indecifrabili, con l'idrau­lico che trasforma il diritto di chiamata in un esproprio proletario. La lista delle persone tendenztalmente por­tate a distribuire piccole e grandi infelicità con i proprt comportamenti potrebbe continuare all'infinito e ognu­no di noi ha la sua personale esperienza da aggiungere al catalogo. Non lasciate che vadano impunite per la loro

strada. Talvolta uno sguardo, una parola tagliente, un invito anche cortese ma fermo a desistere dalla carogna­ta può bastare. Costoro devono capire che la loro stupi­da prepotenza fatta di meschino potere è stata giudica­ta. Non temete di passare per un cattivo carattere, non esponetevi fino alla rissa; basta un tocco di severità o di ironia. Permettetevelo, e vi sentirete meglio.

Certosa di San Lorenzo in Padula

Risorta dalle macerie dell'ultima guerra mondiale questa Certosa testimonia l'intensa vita economica e so­ciale del nostro Mezzogiorno - che certe faziosità ieghi-ste vorrebbero ridurre a pietra negativa di paragone per Se glorie aziendali dei padroncini del nord - est. Visitarla non è solo un piacere degli occhi, ma piuttosto un sor­prendente viaggio attraverso sei secoli di storia. Nata nel 1306 per volontà di Tommaso Sanseverino, conte di Mor­sico, porta i segni della sfarzosa magniloquenza dell'or­dine Certosino, nonostante le ruberie degli eserciti inva­sori l'abbiano privata di pregevoli quadrerie. Ma non si distrussero abbastanza (e fu possibile restaurarle) le pie­tre, la straordinaria, opulenta bellezza circolare delle sue scalinate, la finezza d'intaglio e i colori freddi ed eleganti dei marmi che adornano gli altari, la commovente gran­diosità della biblioteca lignea impreziosita da un pavi­mento di ceramica di classica fattura locale, la lineare bellezza degli appartamenti dei monaci chiusi nel silen­zio dei loro orti, i portici, i giardini, la marmorea lievità di statue e pinnacoli contrapposti con barocca sfronta-tezza all'azzurro del cielo. Una grande piana deserta cir­conda la Certosa; siamo nel Vallo di Diano, antico baci-

no di un lago scomparso e i centri abitati arroccati intor­no conservano vestigia importanti. La storia di questi luoghi non si sottrae alla modestia politica delle nostre vicende nazionali; vi affiorano tuttavia caratteri e siner­gie singolari, in vario modo debitrici di un passato illu­stre. Non sono trascorse invano le esperienze di una re­ligiosità contemplativa e aristocratica, dentro e fuori le mura di questo monumento che può aggiungere un tas­sello importante nel nostro mosaico di momenti di feli­cità.

Cimiteri

"Vissi felice ma non abbastanza" si legge sulla tom­ba di un cinquantasettenne vissuto fra l'ottocento e il novecento a Trieste e che ora giace in quel cimitero ( a meno che l'implacabile turn - over del sovraffollato luo­go di eterno riposo non abbia spazzato via la stele di marmo e la sua scritta). A ben vedere, l'illustre defunto di che si lamenta? Di non aver vissuto più a lungo, o lascia intendere di non aver goduto, nell'arco della sua vita non lunghissima certo, di abbastanza felicità? C'è spazio per disquisizioni degne delle ambiguità adottate spesso nel loro linguaggio dagli antichi romani aruspici E perché - se fu egli personalmente a decidere per quel prò - memoria post mortem - una scritta così perentoria* e sottile al tempo stesso? Rimpianto verso un futuro che già si intravedeva proteso ad un allungamento della spe­ranza di vita? E anche un po' di invidia per i più giovani di lui che ne avrebbero beneficiato? Corruccio di un ipo­condriaco insoddisfatto? Voleva egli invece lasciare un ultimo insegnamento scolpito nel marmo: di non aver

saputo catturare a piene mani tutta la felicità che poteva venirgli dalla vita, e di essersene reso conto solo in pun­to di morte? Un invito a chi avrebbe sostato davanti alla sua tomba: non fatevi sfuggire la felicità, sappiate ve­derla, afferratela in tempo, non aspettate il finire della vita per scoprire, con rimpianto, di aver sciupato occa­sioni e opportunità? In molti avranno letto questo mes­saggio. Il cimitero triestino è frequentato con spirito mondano appena venato di malinconia; in cimitero ci si da appuntamento, le famiglie stabiliscono Ì turni per la cura delle tombe, le gattare nutrono i felini che vi pas­seggiano pigramente, in cimitero si fanno e disfanno amicizie, fioriscono "laisons" della terza età, anche ma­trimoniali, il richiamo delle fioraie con i loro banchetti disposti in circolo all'ingresso, nell'attirare i clienti risuo­na affabile, quasi giocoso, come di chi invita a portare fiori in visita ad un amico o a un parente. Il nostro trie­stino vissuto a cavallo di due secoli avrà pensato che questo era un posto giusto per una perorazione a favore della felicità-

Compagna Francesco

È stato un intellettuale dì grande impegno, France­sco Compagna, direttore di Nord e Sud, la prestigiosa rivista da lui governata per quasi un trentennio, fino alla morte, nel luglio del 1982, in un sabato assolato, nell'iso­la di Capri. Ed era entrato nella politica attiva portando in questa esperienza, vissuta da deputato e uomo di go­verno, la stessa instancabile fede nella capacità delle idee di incidere fortemente sulla realtà, trasformandola. Que-

sto lo ha spinto ad un modo generoso ed impetuoso di vivere la politica, lo ha reso esigente nei confronti delle sue stesse azioni. "Il risultato" ci doveva essere, bisogna­va dare una risposta vera, concreta, che riscattasse l'at­tesa dei lunghi anni trascorsi nell'isolamento politico di una Napoli dominata dai laurismo e dal trasformismo, anni di battaglie giornalistiche feroci, di libri importan­ti, in una condizione minoritaria ma di riferimento per quanti credevano in un Paese unito e in una rinascita del Mezzogiorno d'Italia. La prematura scomparsa ha ri­sparmiato a Francesco Compagna Io spettacolo inde­coroso della crescita leghista, dei cedimenti istituzionali a questa marea di analfabetismo politico, degli ammic-camenti di buona parte del mondo giornalistico e del­l'informazione che hanno assecondato un dibattito squallido. Lui che nella polemica giornalistica si era sem­pre esposto, con nettezza salveminiana, pronto a sceglie­re una parte, senza mezzi toni o ambiguità. Questo do­lore gli è stato evitato da una morte che non arrivava improvvisa, ma era frutto di una scelta: portare avanti il proprio compito, nella normalità, ignorando un cuore malato. Chi è vissuto in questo modo, con questa gene­rosità, ha certamente attraversato la vita con molti mo­menti felici. Momenti che si avvertivano nella Sua ricer­ca di soluzioni armoniche ai problemi - quasi in contra­sto con il turbinìo di polemiche e battaglie che accom­pagnarono di continuo la sua vicenda di intellettuale e di politico. Quando un'azione ben fatta andava in por­to, o degli amici realizzavano un programma stabilito, quando si superavano difficoltà per raggiungere un ac­cordo, in politica o in famiglia, egli manifestava una sod­disfazione, una voglia di felicità, che in persona meno avveduta e intelligente sarebbe potuta apparire ingenui-

tà o sprovvedutela, ma in lui, per ragioni biografiche, assumeva la nobiltà di intima coerenza con una conce­zione anche estetica della vita che poteva e doveva esse­re "bella".

Compagni di viaggio

Avete tutta una vita da passare in compagnia di voi stessi, perciò datevi da tare per conoscervi il meglio pos­sibile. Vi accorgerete ben presto che la felicità o l'infeli­cità dipendono solo in parte dalle cose che accadono fuo­ri di voi, e moltissimo invece da come voi le accogliete e le vivete. Siete voi, con ì vostri umori e sentimenti, ma anche la vostra ragione, che date un senso agli avveni­menti e li colorate di rosa o di nero. Oppure li conserva­te in quel grigiore spesso e gelatinoso che mortifica il presente - sempre - a vantaggio di improbabili gioie fu­ture o di rimpianti per quelle non vissute del passato?

Confidenze

Rassegnatevi a perdere ben presto il controllo delle vostre confidenze. Non esiste segreto che abbiate deciso di affidare all'amorevole attenzione di un amico che non trovi una via di tuga considerata praticabile da colui o colei con cui avevate deciso di condividere "riservata­mente" un vostra cruccio o magari una felicità. Siate sag­gi e non prendetevela troppo con il traditore. Interroga­tevi con sincerità per capire se avreste saputo essere mi­gliori. Oppure, siate saggi: tacete. O ancora, siate saggi, parlatene con il vostro gatto: apprezzerà che abbiate

avuto fiducia in lui e vi regalerà uno di quegli sguardi liquidi ed enigmatici che lasciano trasparire altre cose e altri luoghi da esplorare per saperne di più della vita. Entrerete in una dimensione chi vi distrarrà dall'osses­sione del vostro segreto. E inoltre, siate certi, "lui" non ne parlerà.

Confronti

II confronto può essere un gioco divertente o perver­so. Dipende da chi lo frequenta. Ambiziosi e arrampica­tori lo mettono al centro della loro filosofia di vita; i pri­mi ne ricavano una spinta e nuove energie per raggiun­gere mete sempre più grandi, i secondi ne traggono in­vidie provvidenziali per la propria affermazione socia­le. Il confronto assomiglia a Giano bifronte: se guarda dietro di sé si rallegra per il percorso compiuto, se guar­da avanti si rammarica di quello da fare. Il confronto vale se parte da una ragionevole sincerità con se stessi; in caso contrario - di chi si sovrastima come di chi si de­prezza - cose, persone, situazioni vengono deformate da un errato metro di giudizio. Insomma il confronto non è esattamente un esercizio spirituale dei più facili; esige anche una giusta dose di autoironia, e in tal caso può risultare perfino divertente e liberatorio. Giova ai tem­peramenti con vocazioni forti: lottatori della vita, leaders politici, scienziati e managers in carriera, aspiranti alla santità; non da ad essi una vera felicità ma li mantiene in armonia con i propri percorsi di vita e magari, anche, con le loro nevrosi. Il confronto è tuttavia innato nella nostra natura di animali sociali - si sospetta che finan­che il gatto, il più solitario fra gli esseri a quattro zampe

io eserciti ogni qualvolta incontra un individuo della stessa specie dentro il suo territorio -, Kassegnamoci per­ciò ad averlo come compagno di vita, ma asteniamoci

dall'abusarne e consideriamolo per quello che vale, spes­so inutile e talvolta anche dannoso.

Controra

Dolcissimo riposo della controra; se non siete costretti alla scrivania con. panino, o in azienda o in fabbrica con il self-service della mensa aziendale, concedetevelo! Non fatevi intimorire da chi vi annuncia severamente "io non dormo mai di pomeriggio!" La cosa non vi riguarda: cia­scuno è padrone di rendersi amara la vita come crede. Pensate a voi: in veglia 0 in sonno aprite una parentesi, una pausa nella vostra giornata. C'è tutta una scuola di pensiero, da quella salernitana [aut stabis aut lento pede deambulabis] al cardiologo di Eisenhower che invitava a prendere un po' alla leggera le ore immediatamente successive al pasto di mezzogiorno. 11 giornale o il libro nella penembra complice di una stanza vanno benissi­mo, anche per chiudere un occhio. E ad occhi aperti - se vi si è costretti dal lavoro o da altri impegni - perché non indugiare su pensieri disimpegnati, ricordi, sogni, spe­ranze? Aprire anche per poco una finestra su un mondo di tranquilla fantasia vale una "pennicchella" - cammi­nare nei vicoli deserti dì un pìccolo paese - se si ha la fortuna di viverci - significa respirare le sfumature più segrete della controra: la vita quasi sospesa dietro le per­siane accostate, la qualità di un silenzio voluto e godu­to, e se si è in estate, il canto delle cicale, incuranti della calura, da ascoltare, al riparo di un albero o alla frescu-

ra di un angolo ombroso dei vicoli. Piaceri da filosofo, interdetti ad una intera generazione di yuppies.

Cose

Le cose hanno un'anima. Piegatevi talvolta su di esse per trame i molti e diversi piaceri che possono dare. Non trattate distrattamente la tazza del vostro caffè mattuti­no. Ci sarà un motivo perché l'abbiate scelta del colore e forma preferiti. O no? Trangugiate in fretta una broda­glia qualsiasi in un contenitore qualsiasi? Orrore! Corre­te alla vetrina dove stanno solitàrie e abbandonate me­ravigliose o semplicemente belle tazze di porcellana, di ceramica, di qualsiasi altro nobile materiale, sceglietene una e domattina anticipate il risveglio anche di soli cin­que minuti per berci il vostro caffè o thè che sia. Acca­rezzatela con gli occhi e con le mani, vi restituirà, tripli­cato, il piacere di essere usata, con mille impercettibili godurie. E vi sarà grata, più dei vostri nipoti ai quali non importa affatto che il servizio arrivi intatto in eredità. E se, per caso, a loro importa? A maggior ragione: ricor­datevi che avete una vita soltanto per gustare una buo­na bevanda in una bella tazza di porcellana.

Danaro

Non prendete troppo sul serio quelli che predicano che il danaro non da la felicità. Controllate, per prima cosa il loro personale comportamento: sono attaccati al soldo? Al bar aprono il portafoglio per primi e pagano? Fanno la mossa e basta? Avete mai provato a chiedergli

in prestito anche solo diecimila lire? Ma veniamo alla sostanza dell'assioma, il quale è vero e non è vero! Ai tipi melanconici, depressi, ipocondriaci non basterà il te­soro contenuto nei depositi di Fort Knox per renderli di umore più trattabile. Ma non prendeteli ad esempio: rap­presentano un caso estremo. Anche il mendicante che vi gratifica di un sorriso aperto ed amichevole per una ele­mosina data con garbo non è emblematico. Il danaro è importante per vivere bene e ognuno di noi ha di que­sto "vivere bene" una propria misura. Il campionario umano è vastissimo: il misantropo, il festaiolo, il viag­giatore, il musicomane, Io stanziale pantofolaio, il cac­ciatore dì farfalle, il lavoratore stakanovista, lo sportivo, l'artista, il giovane, l'anziano, l'avaro, il prodigo, l'ar­rampicatore sociale, l'ambizioso sfrenato ecc. ecc. La "misura" sta ancora una volta nel titolare dei bisogni e dei desideri. Il danaro è fuori gioco, conta tanto e nulla se è "lui" che possiede, o è solamente posseduto. Datevi perciò una regolata. Certo, un po' di danaro aiuta e se vi arriva all'improvviso un' eredità cospicua, non tiratevi indietro. Vi metterà al sicuro se la vostra USL vi rifiutas­se le cure mediche per qualche antipatica malattia. Se non proprio la felicità dal danaro avrete un po' di sollievo.

Dare - avere

Ecco un bilancio sulla propria vita da evitare se si desidera sinceramente essere felici. Se abbiamo dato molto e avuto poco, constatarlo cambia le cose? Se ab­biamo avuto molto e dato poco non è il caso di rispar­miare alla nostra coscienza qualche angoscioso penti­mento? In tutti e due i casi abbiamo seguito, evidente-

mente i] nostro temperamento, ed essere stati in armo­nia con noi stessi nell'agire è già un bel risultato. Ci sono tuttavia delle differenze nell'uno o l'altro modo di esse­re che la vita stessa, alla distanza, incamera nel conto del risultato finale. Chi ha un temperamento generoso, por­tato a offrire amore, simpatia, aiuto, solidarietà- anche senza grande merito, arricchisce: donare è un atto crea­tivo e fantasioso, restituisce sempre qualcosa a chi ha fat­to il gesto. Donare troppo può anche non essere giusto, talvolta, ma se ci va di farlo, di certo non fa male alla salute. Chi misura con troppa frequenza il dare e avere nei propri rapporti con il prossimo rischia di meno, ma siamo proprio sicuri che viva felice?

Digitare

In principio il gesto ha avuto del miracoloso; pren­dete una tastiera e uno schermo e vi cambierà la vita. Niente più vistose cancellature con le xx sui testi scritti ma videate limpide dove tutto è possibile: scrivere, spo­stare frasi, allineare, integrare, correggere. Niente più ingombranti agende per appuntamenti e prò memoria, sostituite da eleganti tastierine tascabili. Archivi polve­rosi affidati alla memoria dell'hard disk, la vecchia sche­datura del patrimonio librario di famiglia contenuta in un minuscolo floppy. Le ghiotte ricette di mamme e zie riemergono dalla memoria del personal suddivise per tipologia, variabili merceologiche degli ingredienti, tem­pi di cottura, menù di occasioni memorabili - battesimi, lauree, compleanni. Tutto intorno a noi induce a digita­re: scrittori - ingegneri ci invitano sorridendo a provar­ne l'ebbrezza colloquiando confidenzialmente dal video,

digitano ragazze giovani e spavalde negli uffici, non più giovani e attempateli riciclati all'anagrafe e alle poste, al botteghino di teatro una luminosa trasparenza ci as­segna il posto che vogliamo, all'albergo la stessa stanza dell'ultima volta, se gradita, e guai a non decidere velo­cemente; un brivido di piacere ci attraversa, siamo an­cora dentro il tempo massimo consentito, la macchina non ci surclassa! Nonostante qualche disavventura di percorso - una manovra sbagliata ha cancellato all'istan­te cinquecento indirizzi faticosamente inseriti sul note book - ci sentiamo felicemente alla pari con nostro nipo­te che digita giochi e puzzle, visita il Louvre di-Parigi seduto sulla moquette di casa e riceve posta elettronica on-line. Ne ricevo anch'io: ho una casella, codice di iden­tificazione e tutto quel che serve per corrispondere con il "mondo". Ho trovato in casella, qualche giorno fa, un messaggio impertinente " che ci fai alla tua età in Inter­net"? Ho risposto per le rime "Avrai anche tu, prima o poi, i capelli grigi, e chissà se ce la farai ancora a naviga­re in cyberspazio".

Divorzio

Tutto quello che precede il divorzio ha ben poco a che fare con la felicità; si sia trattato di un lento logoramen­to del rapporto amoroso, di un rissoso e defatigante con­fronto di caratteri, di tradimenti e traumatici addii, la fine di un matrimonio resta un'esperienza dolorosa. Il divorzio regola gli aspetti giuridico-istituzionalì del "fal­limento", mette a posto le carte ma non sempre placa gli animi. Bisogna essere in due a voler fare in modo che le conseguenze di un matrimonio sbagliato non ricadano

rovinosamente sul resto della reciproca esistenza. Le ra­gioni per cui molto spesso questo gesto di estrema ele­ganza del vivere non si materializza con reciprocità nei comportamenti del "dopo" sono tante: i figli, usati come arma permanente di ricatto, i quattrini, trattati con l'avi­dità dell'inimicizia che ha sostituito l'amore, la paura della solitudine sublimata nell'odio dell'altro, o più sem­plicemente l'errore iniziale di valutazione del partner si riverbera al di là della notarile separazione dando al le­game - in negativo - quel carattere permanente che le legislazioni liberali hanno voluto attenuare.

Il divorzio come istituzione ha tuttavia riversato su un'intera collettività di malmaritati una libertà di nuove opzioni creando le premesse per armistizi nella guerra di coppia. I molti, e coraggiosi, che hanno voluto rimet­tere su famiglia - magari sommando figliolanze nate da precedenti legami - hanno esercitato la prima delle li­bertà offerte dall'istituzione: ricominciare daccapo, ria­prire il cuore e l'anima a nuovi affetti; una rinascita sen­timentale più matura, e forse, meno conflittualità verso il legame di prima. C'è anche chi scopre, dopo un matri­monio andato male, di non essere proprio tagliato per la vita in due - narrata tutta a rose e fiori dai venditori di elettrodomestici, automobili, liquori e viaggi di nozze ai Caraibi.- Anche a costoro l'istituzione divorzio offre la stessa opportunità: ricominciare una vita nuova, stavol­ta da single, ricca di inimmaginabili libertà. Dopo l'ap­provazione della legislazione divorzista una mia cara amica ha smesso di proclamare ai quattro venti che il giorno più bello nella vita di una donna è quello in cui diventa vedova. Un bel progresso nella sua Weltan-schauung, tutto ascrivibile all'Istituzione.

Editore

Un navigatore temerario, un gentiluomo votato al suicidio, un giocatore d'azzardo, un gigante con i piedi d'argilla, un mago, un benefattore dell'umanità, un ca­valiere della cultura, un pazzo: provate a mettervi nei panni di uno che pubblica le opere d'ingegno di un al­tro, il quale, a sua volta ha speso ore e ore della sua vita, in solitudine, davanti a un foglio bianco e una macchina da scrivere o avvinghiato ai comandi di un Personal Computer e di una stampante laser. Vi sembra costui persona normale, dal momento che "stampa" in previ­sione che qualcuno "compri" e precisamente un "pub­blico" di futuribili, imprevedibili, ondivaghi lettori? Co­stui è sicuramente dotato di molta immaginazione, qua­lità lodevolissima ma poco diffusa, e dunque del tutto normale non è. Vendere medicinali, legacci per scarpe, frutta e verdura, intimo da donna e uomo, cappotti, ver­nici, automobili, è attività con un margine di rischio cal­colato. Vendere libri, un genere non necessario in un mondo dominato dalla comunicazione teievisivizzata e informatica, è come ripiombare nei medioevo amanuen­se. Così pensa e si dispera l'aspirante scrittore, al quale tuttavia "un editore" è necessario come il pane. Egli ha bisogno spasmodico di un padre-padrone che lo omolo­ghi nell'universo delle lettere e renda credibile ai suoi stessi occhi la "sua" identità di scrittore. Un editore "Ma-ero" con uffici satellitari e luogotenenti sparsi ovunque potrebbe essere rassicurante ma anche occasione di lot­ta continua con i vassalli e valvassori che si annidano negli anfratti dei grattacieli di ferro e vetro, incaricati di scrivere letteracce gentili e negative - con rituale restitu­zione del dattiloscritto - dopo aver lasciato il pesciolino

appeso per almeno sei mesi all'amo della speranza, per ributtarlo, alla fine, nel mare dell'anonimato letterario. In un paese in cui l'esercito dei lettori è quasi minori ta-rio rispetto a quello degli scrittori - si dispera il nostro autore - il pubblico rincorre le banalità in carta patinata degli eroi dell'effimero, quelli con la faccia in TV. -. Mo­tivi di consolazione per il pesce piccolo ributtato a mare: riflettere sui "grandi respinti" del passato, Italo Svevo, Boris Pasternak straniero in patria, Tornasi di Lampedu-sa, ecc. ecc. O anche, registrare qualche incidente di per­corso di vassalli e valvassori che non hanno fatto il pie­no preventivato, con il lancio dell'ultimo venditore di illusioni televisive formato copertina e carta patinata. Giunge la felicità quando l'approdo è vicino: un editore, grande, piccolo, medio, storico, nato ieri, microscopico, di avanguardia o meno, ha detto "si pubblica". Inizia un tortuoso percorso fra sponsor, recensori, amici facoltosi e condiscendenti, giornali fiancheggiatori, presentatori televisivi compiacenti, librerie con pubblico assicurato, ecc. ecc. Quanta fatica, e al fondo un pensiero che la illu­mina tutta: "qualcuno" ha pensato che quanto era stato scritto " valeva la carta su cui stamparlo". Quando si dice che si può essere felici con poco!

Facile-difficile

Toglietevi dalla testa l'idea che la felicità sia facile e che la si conquisti cantando. Danno maggiore non pote­va farvi chi vi ha lasciato coltivare l'illusione che la vita sia una passeggiata di tutto riposo. Ma se accettate la sfi­da e vi lasciate stuzzicare dall'ambizione di diventare i creatori di quella personalissima opera d'arte che è una

creatura "felice" entrerete in un mondo infinitamente ricco e pieno di sorprese, non finirete mai di stupirvi su voi stessi, sugli altri, sulle cose che accadono intorno a voi. E, credetemi, già questo, in un mondo popolato di gente annoiata e triste, che spesso si fa passare sotto il naso momenti di felicità senza vederli e senza coglierli, vi distingue e vi regala allegrìa.

Fantasie

Sono i nostro attimi di libertà dagli imperativi con­creti delle cose di tutti i giorni, perché privarcene? Pur­ché la fantasia, il sogno, non prevarichino e non diventi­no evasione dalla responsabilità di vivere. Se abbiamo lavorato abbastanza da guadagnarci il pane quotidiano, pagato debiti tasse e contravvenzioni, rispettato, ove sussistano, gli affetti familiari, possiamo permetterci tut­ta la fantasia di cui siamo capaci. Ci sono le fantasie "buone": immaginare una vincita in lotteria e tutti i pia­ceri che ne potremmo trarre, compresi quelli "cattivi" di rallegrarci dell'invìdia del nostro prossimo; ci sono le fantasie cattive - immaginare i guai che possono capita­re ai nostri peggiori nemici (se ne abbiamo), fantasie dopotutto "buone" poiché risolvono nell'immaginario vendette che non eseguiremo mai. Fantasie erotiche, buone per conciliare il sonno nelle notti solitàrie, fanta­sie futurologiche - vie di mezzo fra il sogno e la proget­tazione - se si vuoi anticipare il risultato delle nostre ambizioni o aspirazioni. La fantasia fa bene alla salute, dilata gli orizzonti, può finanche suggerire idee e per­corsi nuovi alla vita reale. È un esercizio mentale cui de­dicarsi nei momenti difficili per chiamare in soccorso

ai nostri problemi il massimo delle risorse . È un modo per usare il cervello al di là delle strettoie delia pedisse­qua quotidianità. A piccole dosi consente di attenuare le angosce di uno sgradevole presente in attesa di tempi migliori. Non abusarne e non rifiutarla è una giusta via di mezzo.

Fantasmi

Se un caso, un meritato successo professionale, un colpo di fortuna vi riportano improvvisamente sul pal­coscenico del vostro piccoio teatro della vita, vedrete ri­comparire i fantasmi delle vecchie amicizie. L'oblio, la perdita di status da protagonista vi avevano reso invisi­bile, e loro, gli amici di sempre, ne avevano preso atto e a loro volta si erano resi " invisibili"; non richiamavano dopo una vostra telefonata a vuoto, il saluto per strada da partecipe si era fatto cordiale e frettoloso, gli incontri rari. E adesso, vi chiedete un po' perplessi, come com­portarvi di fronte a telegrammi, inviti reiterati, telefona­te chilometriche e giulebbose? Avreste voglia di manda­re tutti al diavolo e rinfacciare i bocconi amari trangu­giati. Ma non fatelo; li trattereste da uomini senza rica­varne granché. Sul filo dell'ironia, anche benevola, la­sciateli nella loro condizione di fantasmi. Gentili quanto basta, condiscendenti con piacere e distacco alle loro rin­novate attenzioni. Accettate inviti a cena se in casa dei fantasmi si cucina con garbo e si servono vini di qualità. Un po' di gente intorno, quattro chiacchiere del più e del meno, a piccole dosi, qualche week-end nelle case di campagna di queste creature evanescenti, tutto giova all'igiene mentale. E poi al primo rovescio di fortuna,

all'appressarsi di qualche nuovo black-out mondano, non sarà meno penoso veder risucchiati nel nulla i no­stri cari fantasmi anziché esseri più consistenti e veraci? Sarà questo il lato debole della vostra vita. I sentimenti forti, gli amori, gli odi, le trepidazioni riservatele ai veri amici, che sono pochi.



vW

Felicità è gatto

Sarò accusata di faziosità, in primo luogo dagli aman­ti dei cani - e me ne scuso - e da tutti coloro che vivono nella presunzione di essere qualcosa di diverso da "ani­mali a due sole zampe" - e mi rammarico per loro -. Fe­licità è gatto lo dichiaro a ragion veduta. Molti mi sono vissuti accanto e ci siamo fatti buona compagnia. Abbia­mo lavorato insieme - talvolta una carezza distratta ad una pelliccia avvoltolata sulle carte ha riacceso la fanta­sia e ripescato qualche idea che si era perduta. Abbiamo ascoltato musica insieme, talvolta abbiamo viaggiato. Ciò che io ho dato in cibo e cure mi è stato ampiamente restituito in emozionanti scoperte sulle infinite possibi­lità di comunicazione che si possono instaurare con ognuno di loro. I segnali di questo contatto sono imper­cettibili, le affettuosità sottese, l'invito al gioco discreto ed elegante, la trasgressione o il dispetto hanno una loro logica che chiede di essere interpretata, è anch'essa, come accade nei cuccioli d'uomo, una forma di comuni­cazione. Ho imparato molto di me stessa vivendo con loro, e da ognuno cose diverse: ad essere meno aggres­siva, a riflettere sulla natura delle cose, a indulgere un

po' di più a momenti di contemplazione. Quanti stupidi motivi di stress si sono dileguati in pochi minuti conces­si ai loro giochi. Ho evitato di vivere troppo sopra le ri­ghe, abbandonandomi talvolta alle loro fantasie. Ho sof­ferto delle perdite, ed ho ostinatamente continuato a cer­carne altri, accettando a priori il dolore del distacco. Non ho mai messo piede in un negozio per comprare un gat­to; i miei amici stavano per strada, o sono nati in casa. L'orrore e la paura per le sofferenze cui potrebbero an­dare incontro mi ha insegnato il rispetto per le sofferen­ze di tutti gli animali, soprattutto di quelli di cui ci nu­triamo, esposti a comportamenti disumani e istituziona­lizzati. Detesto i corsivisti e i maìtres a' penser che nei loro scritti, ogni tanto, distinguono le categorie del do­lore per Je sofferenze degli uomini e degli animali asse­gnando alle prime un posto di riguardo; come se non fosse atroce la vista di un animale che soffre per mano d'uomo senza avere l'intelligenza necessaria per capire fino in fondo da dove, e perché gli viene tanta crudeltà. C'è poca felicità in quanto sto scrivendo, c'è semmai, as­senza di felicità, e ad una assenza di vera felicità, credo, si debba attribuire la capacità di esseri umani dì inflig­gere sofferenze, a uomini ed animali, senza distinzione alcuna dì gravita. Se gatto è felicità ciò non accade tutta­via per tutte le piccole gioie e l'affettuosità che ci procu­ra nella sua quotidiana compagnia, ma è proprio per la lievità con cui ci induce a passare da quel piacevole rap­porto a una maggior profondità dentro noi stessi: quan­do si nega, e ci costringe a domandarci perché, quando ci sfugge e ci sfida, quasi, a misurare con altro metro la distanza che da lui ci separa, quando si invaghisce di un nuovo gioco e ci distrae da qualche ossessione di cui misuriamo improvvisamente tutta la inconsistenza,

quando, vivendo con più di uno in casa, seguiamo i loro comportamenti, lo scambio di piccoli reciproci favori, La gestione oculata delle maternità, la vita di coppia, il gio­co dei fratelli cucciali come scuola di vita. Sì schiude un mondo che altrimenti verrebbe meno alla nostra espe­rienza, e si materializza nel tempo, una sorta di educa­zione sentimentale che si accompagna a quella che la vita ci somministra nel contatto con gli uomini: ne uscia­mo un po' più ricchi nell'ariana, e dunque potenzial­mente più felici. Se avete un figlio che vi chiede insisten­temente di possedere un gattino non negategiielo solo per qualche piccola scomodità in più. Sappiate che gli state negando un'avventura educativa di straordinaria bellezza, e la state negando anche a voi.

Femminismo

Si può essere telici di vivere in un mondo in cui Lina buona metà degli esseri viventi è considerata violente-mente o blandamente inferiore a causa del proprio ses­so? 11 femminismo nasce da questa domanda, diventa filosofia non da oggi - risalgono alle donne monacate a forza fin dal sedicesimo secolo dopo Cristo le prime for­me di autocoscienza e di rifiuto di questo grande sopru­so della storia - scrive attraverso molti protagonisti, don­ne e uomini, pagine teoriche di straordinaria efficacia e bellezza, ma ancor oggi è costretto a confrontarsi con l'impermeabilità di un'opinione pubblica che scambia una grande rivoluzione di pensiero con incomposte ma­nifestazioni di piazza. E può una donna cosciente di tut­to ciò vivere felice accanto ad un compagno conosciuto ed amato neLl'equivoco ante-femminismo? Molte furo-

no le separazioni, le rotture di legami matrimoniali con­siderati solidissimi, nel momento dell'ultima ventata femminista, agli inizi degli anni '70; ed erano le donne ad andarsene. Avevano sperimentato tutta la verità del­le parole di John. Stuart Mill " ai di sotto di ogni uomo, anche il più reietto, c'è una donna che subisce"; una do­minazione che "differisce da tutte le altre perché volon-tariamente accettata".

Ne conseguiva inevitabilmente che il privato era "po­litico" e si cercava, attraverso la rottura, una propria nuova dignità. Molte donne hanno evitato il trauma del­la separazione e si sono dedicate all'educazione femmi­nista delle proprie figlie, e dei figli maschi, convinte che si può essere felici anche consapevoli di vivere dentro una rivoluzione incompiuta. Del resto, quanti sono, rea­listicamente, i casi di felicità totali ed assolute?

Fotografie

Ordinatele per data e luogo, abbandonatevi a qual­che didascalia se vi va di farlo, date ogni tanto un'oc­chiata a questo film della vostra vita, nato spontanea­mente da viaggi, occasioni, avvenimenti. A differenza della petulante telecamera amatoriale che spesso indu­ce i soggetti a fare gesti inconsulti e un po' imbecilli per movimentare la scena di improvvisati registi, l'obiettivo fotografico è più immediato; per qualche innocente mes­sa in posa vi saranno tante e tante vostre immagini colte dal vivo, espressioni rubate e sincere. Magari al momen­to non vi saranno piaciute, un po' crude e non perfette, meno belle di quanto pensate di voi stessi, ma a distan-

regalatevi ora un diario così, tenero e divertente, met­tendo ordine nelle vecchie foto che avete ammucchiato

da qualche parte.


Gatto

II gatto è animale curioso e questa è forse l'unica sua qualità da non imitare. Ci sono gatti - e uomini - che han­no preso sul serio l'esortazione del Poeta "fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza". Consiglio da assumere con cautela se non si possiede l'intelligenza e soprattutto la fortuna di Ulisse che ne ha passate di tutti i colori ma alla fine ha ritrovato casa, beni e Penelope. Quest'ultima in veste di gatta, ad esempio, mantiene una parvenza di moglie fedele finché alleva amorevolmente la sua cucciolata, ma se Ulisse - gatto non si ripresenta in tempo quando "lei" ha deciso di emancipare i figli e affidarli al loro destino di giovani adulti per le vie del mondo, trova un branco dì Proci pronti a sostituirlo, e Penelope consenziente.

Innumerevoli gli incidenti che possono occorrere al gatto curioso: restare prigioniero di una cantina o di un armadio, salire su un albero o sulla cima di un tetto sen­za trovare agevolmente la via del ritorno, perdere il baf­fo o la coda dentro qualche ingranaggio esaminato a di­stanza troppo ravvicinata. Analoghi e peggiori incidenti riguardano gli umani che hanno deciso di dedicarsi al

giornalismo di cronaca nera, ai servizio della giustizia, al lato nobile della carriera politica - che esiste, ma po­chissimo frequentato.

Virtù gattesche da imitare: pulizia [il gatto si lava pri­ma e dopo ì pasti], prudenza [vale per i curiosi], distac­co e discrezione nel guardare alle cose del mondo, atti­tudine a dedicarsi con moderazione ma con gioia, al pia­cere altrui. Un gatto che ronfa sulle vostre gìnocchia e vi t'issa negli occhi, dolcissimo e imperscrutabile, come se... vi insegna, in ogni caso, che nella vita, a far bene si rica­va maggior felicità che a far male. Provare per credere.

Gentilezza

Non è facile essere gentili con gli arroganti, gli stupi­di presuntuosi, i supponenti, i bugiardi colti in flagran­te. Non è necessario esserlo, a ben vedere; costoro han­no diritto ad una nostra pedagogica scortesia che li aiuti a capire i loro errori. Un eccesso di gentilezza - vendetta di aristocratica raffinatezza il cui significato ultimo è l'as­soluta sottovalutazione dell'interlocutore maleducato -va riservata a casi rarissimi, altrimenti è dannosa e male interpretata. Ma con tutti gli altri, esseri normali pieni degli stessi difetti normali da cui noi stessi non siamo esenti, perché non essere gentili? La gentilezza scioglie le difficoltà piccole e prepara il terreno d'intesa per quel­le pili grandi. Mantiene una temperie morbida nei rap­porti con gli altri e fa bene alla salute poiché il sangue scorre senza turbolenze nelle vene ed arterie. Non costa nulla, o molto poco, se diventa un abito mentale, una costante di comportamento, e genera, non sempre ma spesso, reciprocità. Con gentilezza si possono pronun-

ciare anche giudizi poco caritatevoli verso il prossimo, ma ciò appartiene ad un altro capitolo, e qui se ne ac­cenna con riprovazione. Le nuove generazioni sono poco gentili poiché nessuno ha loro insegnato ad esserlo. I vecchi lo sono di più, anche per paura di essere maltrat­tati. Se siete donna, in quell'età di mezzo che espone i primi capelli bianchi e ricevete una scortesia, magari da un giovanotto al guinzaglio di iuta sgallettata che vi sor­passa in coda per il taxi con il passo lungo e scosciato, non mancate, gentilmente, di ricordare ad ambedue che il tempo passa per tutti, inesorabilmente anche per loro.

Gioie

Se dovessimo contare sulle grandi gioie per misura­re la nostra felicità avremmo di che lamentarci; possono presentarsi anche molto raramente ed essere di breve durata. Sono le piccole gioie quotidiane, i piaceri mini­mi, la scelta delle soluzioni più congeniali a noi, la rete di sicurezza su cui poggia uno stato d'animo sereno, anticamera della felicità. Impossibile fare un decalogo di piccole gioie che valga per tutti: ognuno di noi ha pre­ferenze, ossessioni, nevrosi, tic, gusti, temperamenti di­versi. Ma per tutti restano le occasioni quotidiane da prendersi per il verso giusto; c'è chi ama sostituire una sveglia carcassona con musiche rilassanti, chi decide -se in ritardo sugli appuntamenti - di affidarsi ad un taxi piuttosto che all'autobus valutando il maggior costo a vantaggio della propria igiene mentale, chi spazzola il micio dì casa, rubando qualche minuto alia propria toi­lette per il piacere di sentirsi fra le mani un essere ron-fante di affettuosa riconoscenza, c'è chi nel percorso casa

ufficio cambia itinerario per il gusto di attraversare un parco, chi si prepara una tazza di thè secondo le regole più classiche e cerimoniose anche se è solo in casa, chi

accompagna l'idromassaggio sull'onda delle belliniane imprecazioni della sacerdotessa Norma contro Pollione e Adalgisa, chi mette a soqquadro un negozio senza comprar nulla, ma qui siamo al limite del lecito. Le pic­cole gioie proprie non possono intaccare l'altrui tranquil­lità, perciò niente televisori o radio a tutto volume, ban­do alle sigarette sventagliate distrattamente sotto il naso di asmatici e non fumatori, silenzio in teatro, spenti i te-lefonini alle conferenze, niente biciclette contornano, anche se in passeggiata ecologica. Per il resto si dia via libera all'invenzione e non si concluda che "ci vuoi poco per essere felici", è vero il contrario; a rovesciare l'antico detto ( ad ogni giorno la sua pena ) occorrono impegno e fantasia.

Gioielli

Se appartenete al genere di persona che non distin­gue un topazio da un'acqua marina consideratevi igno­ranti, ma non infelici. Una buona conoscenza della qua­lità e del valore dell'oggettistica preziosa da indossare, al femminile, fa parte dell'istruzione doverosa per le si­gnore da compagnia, in carriera. Se non si conosce esat­tamente il valore di ciò che viene regalato si rischia il deprezzamento sul mercato, sia quello libero che quello matrimoniale. Perciò tanta premura da parte di nonna e zia di Gigì, indimenticabile personaggio di Colette, per istruire bene la ragazza, in proposito. Quando le vostre amiche più avvedute scambiano opinioni e informazio-

ni su qualità, prezzi, modalità d'acquisto della gioielli-stica, prestate silenziosa attenzione, non scopritevi trop­po sulla vostra ignoranza [imparare non guasta, mai], ma soprattutto non fatevi prendere da complessi di al­cun genere. Potrete avere una bella storia d'amore sen­za contorno di rubini, oro, argento o altri preziosi. Sare­te superfortunate se rubini oro argento e altri preziosi arriveranno insieme al grande amore, ma quanto alla promessa "per sempre" che i pubblicitari hanno asso­ciato negli spot televisivi al diamante sappiate che non è affatto garantita. Non fatevi prendere da crisi d'invidia se un'amica esibisce troppo spesso zaffiri e smeraldi; potrebbero rappresentare succedanei di felicità. Diffida­te ugualmente di vostro marito se, dopo lunghi anni di astinenza da regalo, si presenta a voi con un prezioso importante; gli uomini, anche alle soglie del duemila, usano il gioiello per farsi perdonare un tradimento.

Il libro che viene da lontano

Non è un oggetto qualsiasi un libro: dentro ci sono parole e pensieri che qualcuno ha sentito il bisogno di comunicare ad altri. Uno come noi aveva qualcosa da dire, un messaggio affidato a sconosciuti, con affetto e con dolore: arriverà in porto? Si perderà? Pensate a quanti, rassegnati & soli in una stanza, hanno scritto im­maginando, come il Manzoni, di avere appena quaran-tacinque lettori. Certuni sono morti ignorando che sa­rebbero stati diffusi nel mondo milioni di copie delle loro sudate parole, altri senza il minimo sospetto che i diritti d'autore avrebbero arricchito odiatissimi parenti, altri ancora senza minimamente immaginarne l'esistenza.

Vogliamo dare un po' di soddisfazione a tutti questi no­stri concittadini dei mondo passato? Se villaggio globa­le deve essere a che scopo limitarlo ad un presente e fu­turo tutto da scoprire, ignorando un patrimonio di sag­gezza già bell'e pronto e collaudato da intere generazio­ni di lettori? Il libro che viene da lontano, convenzional­mente chiamato "classico" ha perso in parte il suo cari­sma dopo che i frati e gli amanuensi hanno smesso di trascriverlo a mano, ha riconquistato un mercato di "amatori" fra i bibliofili e i cacciatori di edizioni rare. Oggi una generazione di editori dotati di una vena di pazzia ottimista l'ha rimesso in circolazione a prezzi stracciati. Sceglietene alcuni e metteteveli sul comodino in camera da letto. Scoprirete ben presto che due pagine accostate con calma e in silenzio vi conciliano il sonno altrettanto bene di un film in seconda serata infarcito di pubblicità sulle merendine delia prima colazione. E vi sentirete meno cretini.

Immaginazione

Nel 1968 e dintorni si invocò a gran voce, sulle piaz­ze e sai muri delle città universttarie "l'immaginazione al potere" e una parola per secoli relegata nell'alveo fan­tastico assunse improvvisamente un grande valore poli­tico, una domanda di maggior fantasia nel governo del­la società. Non è un caso che la massa d'urto di conte­stazione del presente, tutta proiettata su un futuro" di­verso e migliore " fosse lievitata sulle elucubrazioni di Herbert Marcuse: j filosofi sono a tutti gli effetti indivi­dui capaci di applicare alle scienze esatte una giusta dose di immaginazione. Furono del resto gli illuministi i veri

padrini della magnifica rivoluzione americana e anche della più cruenta rivoluzione francese, dove, nello scor­rere di tanto sangue non è certo mancata una buona dose di immaginazione. L'immaginazione abita ovunque e non sempre viene usata a buon fine: anche i torturatori nei lager, i massacratosi di etnie, i dittatori sono capaci dì grande immaginazione nel praticare il loro mestiere. Nel grande equilibrio dell'universo uso ed abuso di im­maginazione si sono rincorsi e compensati lasciandoci eredità pesanti ma anche bellissime. Che dire di Federi­co 11 di Svevia, del suo navigare fra più culture e religio­ni in epoca di crociate ed anatemi, del suo abile giostra­re fra il potere ecclesiastico e quello civile; quanta im­maginazione per tutto ciò, se ancora oggi, a noi uomini del ventesimo secolo, desta emozioni indicibili sostare dentro le mura ottagonali del suo Castel del Monte dove gli echi del vento profumano dello spirito del suo tem­po. E Benedetto da Norcia? Immaginò che le risorse morali e spirituali dell'uomo avrebbero avuto la meglio su pestilenze e scorribande barbariche, salvò per un fu­turo che appariva improbabile, la saggezza dei libri, la manualità artigiana, il lavoro dei campì. Se la chiesa cat­tolica lo ha fatto santo i laici dovrebbero assegnargli un premio Nobel alla memoria. A Federico e Benedetto ben si addicono le qualità dell'immaginazione secondo il di­zionario della lingua italiana di Giacomo Devoto "facol­tà di cogliere il valore di un'ipotesi o di una interpreta-zione ad un livello superiore". È la facoltà dei poeti, de­gli uomini di azione e dei contemplativi, di quelli che hanno lasciato un segno nella storia e di chi mette delle briciole sul davanzale della finestra immaginando che siano più utili a qualche volatile di passaggio piuttosto che al secchio della spazzatura. Piantare un albero, e far-

Io prima che sì può "perché ci vorranno vent'anni pri­ma che sia cresciuto abbastanza" è frutto dell'immagi­nazione, e dimostra di averne vostro figlio quando si propone di instaurare buoni rapporti con "tutti" i gatti di casa, (se ne avete più di uno). Non mettete un freno, sottovalutandoli, ai suoi primi passi sulla via dell'imma­ginazione. È il gran numero di occasioni che ci offre di vivere con straordinaria versatilità piccoli e grandi even­ti deJla nostra vita a rendercela amica e a incoraggiarci nel coltivarla: se non abbiamo mai pensato che l'imma­ginazione era nelle nostre possibilità, è questo il momen­to di farlo; saremo più felici.

Imprevisti

Siete rimasti bloccati, durante un viaggio in treno, in una stazione intermedia? Un guasto alla vostra auto vi costringe ad una sosta in un luogo sconosciuto? Avete dovuto rimandare la partenza? A meno che questi di­sguidi non vi costino Ja perdita di un contratto di lavoro miliardario, occupate il tempo libero, veramente lìbero che vi è stato inopinatamente regalato dalla sorte, dedi­candovi alla scoperta di cose che altrimenti non avreste avuto l'opportunità di osservare. Fate scorrere le imma­gini nuove, i colori e le forme di un paesaggio, i volti delie persone, le architetture dei luoghi, in un persona-lissimo film tutto vostro. Non trovate più gratificante e creativo occupare la vostra mente in queste esplorazio­ni, che il caso vi ha regalato, anziché disperarvi, senza averne comunque costrutto, per un incontro mancato? E se si trattava di un appuntamento sentimentale, o ero-

tico? Mah! Chissà che una pausa di riflessione non gio­
vi, o non rappresenti una svolta

Incongruenze

Giunti alla fine dei terzo atto di Lohengrin viene na­turale domandarsi perché iì forte e gentile figjio di Par-sifal abbia affrontato un lungo viaggio fluviale a dorso di cigno, un duello periglioso allo scopo di scagionare Elsa dall'accusa di aver assassinato il giovane fratello, una faticosa notte di nozze funestata dalle tremebonde incertezze della sposa sulia di lui identità, regalando al­fine agli attoniti sudditi di re Enrico l'Uccellatore un col­po di teatro di totale incongnienza: il fratello di Elsa ec­colo, vivo e vegeto sotto le spoglie del cigno gentil, vie­ne a riprendere il suo posto regale mentre Elsa muore desolata per aver mancato di fede nel suo salvatore. Addolorati in tanta mestizia gli spettatori del wagneria­no dramma in musica riacquistano tuttavia la lucidità necessaria per arrabbiarsi: non si maltrattano con così tanta disinvoltura il cuore e il cervello di normali indi­vidui pensanti. Ma da tanta sfacciata incongruenza sca­turiscono tre ore di musica sublime; note e note ci dila­niano l'anima e il corpo per raccontare in un linguaggio senza mediazioni che non siano purissimi suoni, il do­lore, la speranza, il desiderio amoroso, l'afrore della ven­detta, la nobiltà sofferta delia rinuncia, la delicata fede nel sublime, la toccante compassione per l'umana debo­lezza frammista al languore amoroso. Una musica che tocca l'anima senza nulla togliere alla ragione sovrasta questo monumentale melodrammatico nonsenso che si chiama Lohengrin. E tanto valga a dichiarare che una

immensa e totale godibihtà musicale nasce da una vi­cenda assurda. Abbracciare senza riserve le incongruen­ze non è sempre possibile ma talvolta giova alla felicità.

Infelicità

Ebbene, non possiamo negarlo; esiste l'infelicità. Nul­
la possiamo fare per evitarla se ci colpisce nel corpo o
nell'anima, al di fuori delle nostre difese. A seconda del
nostro temperamento saremo forti come querce nell'af-
frontare il dolore, flessibili come giunchi perché passi su
di noi con il minor danno possibile. Eccoci assimilati alle
piante, creature sensibili ma anche vulnerabili perché
radicate alla terra, segno della nostra fragilità. Se abbia­
mo imparato a non procurarci da soli e con la nostra
imperizia a vivere, altre infelicità, abbiamo forse motivo
per rallegrarci di dover subire soltanto quelle che ci in­
fliggono gli altri. Non è molto, tuttavia come dice un

proverbio pieno di amara saggezza più buio che a mez­zanotte non può essere.

Lagune

Ciò che veramente ci affascina delie lagune non è chiaro da subito; il paesaggio inconsueto, la distese d'ac­que ferme o increspate da brividi di vento, gli uccelli che stazionano immobili su acque pali e barene, le nebbie che si alzano lievi e in ordine sparso nelle mattinate d'in­verno, i riflessi infuocati che certi tramonti accendono sullo specchio lagunare sono già motivi di incantamen­to. Ma è il silenzio in cui ci troviamo, d'un tratto, che ci

sorprende. È un silenzio di totale immersione: la piat­tezza essenziale della laguna, la circolarltà di un oriz­zonte fatto di terre e acque che si rincorrono all'infinito ci tengono alla mercé di un paesaggio senza scampo; non c'è rifugio per il corpo, né per l'anima. Nulla che ci di­stragga o ci aiuti a fuggire da noi stessi. Non resta che trame profitto ascoltando le nostre voci di dentro, quel­le che non affiorano mai dal consueto fragore metropo­litano. Gioverà mai alla nostra felicità questo bagno di saggezza lagunare? La risposta è incerta e personale. Chi non vuoi correre rischi escluda le lagune dai propri iti-nerari.

Lisa

Ora me ne sto alla finestra e guardo i paesani che passano per la nostra strada. In fila, caracollando, si fan­no vedere anche i piccioni che abitano nella chiesa qui di fronte; non mi temono e io non li desidero. Gli stra­nieri, di passaggio in paese, puntano su di me le loro macchine che fanno splash e flash. La vita scorre tran­quilla, i pasti assicurati, in famiglia tutto bene. Figli e nipoti mìei godono ottima salute, anche i miei ospiti a due sole zampe non hanno, al momento, problemi. Ven­go da una lunga travagliata storia; sfuggita in tenerissi-ma età all'eliminazione ecologica di una nidiata di inde­siderati gattini unilateralmente decìsa da una gattara di Campo dei Fiori, antica piazza di Roma, mi sono nutrita con biberon di latte e giallo d'uovo gentilmente offerti­mi da mani pietose. Ho sposato, messo al mondo ed edu­cato molti figli, subito dolorose perdite a causa delle micidiali macchine con ruote gommate. A figli e nipoti

ho insegnato la caccia a lucertole e topi, a piccoli uccelli di nido. Ho educato i mariti ad accudire i giovani gatti insegnando loro tecniche di attacco e difesa. A tutti ho creato la buona abitudine all'uso della cassetta da toilet­te, additando a mò di cattivo esempio - da non imitare -la consuetudine invalsa in certi automobilisti a due zam­pe di sostare sui bordi delle strade inondando i campi della loro orina puzzolente. Le cose migliori le ho inse­gnate a coloro che mi hanno raccolto e ospitato: ora non si allarmano se io salto all'improvviso sul comò per ve­derli meglio e dall'alto. Questo li ha resi meno ansiosi. Sanno che adoro ricevere una carezza quando mi metto a pancia all'aria lungo i loro percorsi, e farlo li fa sentire più buoni. Se allungo una zampa mentre sonnecchio sul forno a microonde, mi chiamano per nome e si rallegra­no di non essere soli ad occuparsi delle faccende di casa. Se distrattamente non li curo e passo indifferente cerca­no di attirare la mia attenzione poiché ora sanno che amore è conquista continua. Insieme ascoltiamo musica e guardiamo tivù. Talvolta li risveglio e so che fingono occhi chiusi per godersi, inosservati, le mie acrobazie fra piumini e cuscini. Insieme abbiamo abbandonato Cam­po dei Fiori e il teatro di Pompeo, luogo di un illustre tirannicidio, e sostiamo in un incantevole luogo umbro. Le pietre che stanno sotto la mia finestra appartengono all'antica via Flaminia.

LUOGHI




Continua il dialogo con il lettore perplesso Let­
tore;
mi vuoi dire perché il suo dizionario si frammenta
in una serie di "posti", paesi, città che evidentemente
appartengono alla sua esperienza personale?

Autore: È vero, sono tutti luoghi che fanno parte del­la mia vite, e riportandoli alla memoria scopro che mi hanno dato felicità, o non me l'hanno data ma mi hanno insegnato qualcosa, hanno suscitato emozioni o senti­menti.

L Vede, mio caro, stiamo scivolando nell'autobiogra­fia.

A. Aspetti, non dia giudizi frettolosi. I luoghi hanno un'anima, le pietre un linguaggio, ciò che vi è accaduto ha lasciato dei segni, e noi stessi li trasformiamo a se­conda del momento in cui li avviciniamo.

L. E con ciò?

A. Il mio è un invito a far tesoro dei luoghi, a non attraversarli invano, a coglierne i messaggi, talvolta im­percettibili. Non ho altro modo per farlo che con questa quasi confessione in pubblico del rapporto che ho avuto e ho ancora con i "miei luoghi".

L. E in che modo Lei ritiene che tutto questo giovi al suo dizionario?

A. Felicità si annida ovunque, bisogna cercarla, sta­narla, non essere ciechi e sordi di fronte alle emozioni, alle riflessioni, ai ricordi che ci possono venire dalle cose; e i luoghi sono momenti importanti, con le loro partico-larità, la loro diversità, il colore del tempo, quello antico dei centri storici, dei castelli, delle lagune, quello avve­niristico se abbiamo visitato Tokio o le New Towns spar­se nei continenti. Stabilire un rapporto con i luoghi è ric­chezza, è fantasia

L E che altro?

A. È dare un'impronta creativa alle proprie azioni. Non importa essere viaggiatori incalliti per godere la felicità dei luoghi. Luoghi da ricordare, rivivere, assa­porare ce ne sono dentro perimetri infinitesimali: un paese, una città ne custodisce numerosi.

L. Va bene, leggerò i "suoi" luoghi. E poi?

A. Provi a ricordare quanti ne ha visti di suoi, e se li ha capiti e vissuti come meritavano. Lavori di memoria, e per il futuro stia più attento.

Mai

Parola che appartiene di diritto a coloro che sono pas­sati a miglior vita. Sono essi gli unici a poterla usare con tutto il significato definitivo da cui è gravata. D'accordo che gli aventi diritto non sono più nelle condizioni otti­mali per esprimersi. Ma noi che "possiamo", con quale saggezza ci ostiniamo a sigillare con un "mai" fedeltà, amori, odii, comportamenti futuri? Chi promette che non amerà mai più dopo una grande delusione viene

smentito da una sana voglia di intessere nuovi rischiosi legami affettivi. Chi giura che mai tradirà cede a nuove tentazioni. Chi assicura che mai sostituirà il fedele mi­cio defunto con un altro quattrozampe, per paura di sof­frire ancora una perdita, si sorprende con un cucciolo vibratile e languido sulle ginocchia e un "mai" di trop­po da dimenticare. C'è anche chi dichiara che mai più salirà su un 747 Boeing dopo l'atterraggio ballerino di un comandante che aveva fretta di rincasare e vince al concorso detersivi ecologici un volo per due, destinazio­ne Cuba. Dietro al "mai" non mancano i buoni propositi ma talvolta vi si nasconde la paura di vivere, la voglia di rinuncia per non rischiare. La vita si vendica con pic­cole o grandi smentite, talvolta procurandoci amare de­lusioni su noi stessi, talaltra regalandoci insperate felici­tà.

Mantegazza Paolo

"In ogni questione agricola dobbiamo occuparci del terreno e del seme; così è anche della felicità. Prima dob­biamo occuparci del terreno che siamo noi, poi del seme, che sono tutte le cose esteriori che possono farci ricchi o poveri, felici o infelici. Che cosa direste voi di chi aven­do un campo che non conosce né ha mai studiato, vi piantasse semi e piante, anche di prima qualità ma non adatti a quel terreno, che per giunta non fosse stato la­vorato né concimato? La felicità è in noi stessi, non nelle cose, e se noi gettassimo a casaccio nel nostro terreno non preparato a riceverle, gemme preziose? Molti e mol­ti uomini hanno sprecato la loro vita facendo quest'agri­coltura al contrario, accumulando semi e piante senza

mai occuparsi della terra che doveva riceverli. Se invece ci occupassimo di più della nostra sensibilità, che è il ter­reno in cui si pianta e cresce la felicità potremmo con­cludere che sì, l'uomo può essere felice." L'arte di essere felici fu scritta verso la fine del secolo scorso da Paolo Mantegazza, medico, docente universitario, parlamen­tare e scrittore di grande capacità didascalica e divulga­tiva. Mi sono imbattuta in questo suo scritto quando ero a buon punto del mio dizionario, in una libreria di Port'Alba luogo di appuntamenti Ietterari della Napoli più creativa e fantasiosa. Un libraio - editore, Gaetano Colonnese, ne ha scelto pagine suggestive raccogliendo­le in un piccolo elegante volume. E non è stata questa l'unica attrattiva di un luogo dagii scaffali pieni di au-tentiche sorprese. " I libri che pubblichiamo devono pia­cere prima di tutti a noi" fu la risposta, gentile e sorri­dente, a tante mie domande, da parte della signora che mi porgeva il pacchetto-Mantegazza. Ecco un modo sin­golare - ho pensato - di fare della felicità un'arte e del­l'arte un'occasione di felicità.

Mare

II mare non è quella lunga linea piatta, liquida e mu­tevole nel colore, che accompagna la vostra passeggiata lungo la battigia, né quell'azzurro violento e profondo in cui affonda il vostro sguardo in esplorazione dall'alto di un promontorio. 11 mare è un continente immenso, popolassimo e affollato di creature enormi e infinitesi­mali che a stento conosciamo per qualche illustrazione sui libri di scuola o per la visita a un acquario - ne ricor­do tre molto belli a Napoli, Genova, Trieste - ma chissà

quanti altri ci sono, da conoscere, nel mondo. Chi ha vi­sitato un acquano butta meno cartacce e altra immondi­zia in mare. Chi porta in giro per i mari carichi inqui­nanti di varia natura, rovescia in acqua di tutto - com-plice la solitària e incontrollabile immensità e incurante di produrre danno e morte di tante creature viventi: aver visitato acquari non gli è servito assolutamente a niente. Chi ha la fortuna - e il coraggio - di fare il subacqueo -comincia sparando qua e là con il fucile apposito ma spesso s'innamora dello straordinario mondo vivente in cui si è cacciato e smette di sparare per guardare incu­riosito. Se qualche volta avete fatto il navigatore solita­rio, a poche miglia dalla costa, con una modesta barchet-ta, vi sarà capitato di incontrare molti, o anche un solo gabbiano adagiato in tutta calma sullo specchio d'acqua, incurante di voi e della vostra barca, perché "lui" è sicu­ro sul "suo" territorio, e voi siete un intruso qualsiasi esposto al primo vento contrario. Le tempeste riguarda­no voi, che vi siete avventurati in superficie: sotto, nel profondo del continente liquido la vita scorre tranquil­la. Avendo presente tutto ciò, godetevi pure, vedutisti-camente, come foste un pittore, o un poeta, la bellezza del mare in superficie. Se proprio siete dei raffinati fate-io d'inverno; la gamma dei colori offerti da cielo e mare è variabilissima, anche nelle giornate grigie o tempesto­se, e le spiagge sono libere da glutei e seni in sovraespo-sizione solare.

Martina Franca

Questa città pugliese che nel nome conserva un ri­cordo di libertà, domina dall'alto dei suoi quattrocento

metri di altitudine la Valle dei Trulli e vi si affaccia tutta bianca e maestosa. Il suo centro storico, assediato a sud ovest dalla città nuova, conserva dentro le mura tutta la magia di un barocco elegante in forme talvolta povere, talaltra sontuose. I suoi tetti a cupola, a punta, in altre forme bizzarre, disegnano confini netti e candidi contro un cielo azzurro e intenso; è uno spettacolo che sa di ma­gia, improbabile e unico nella sua bellezza. Nulla si può dire di più, e di meglio, su questo luogo, di quanto scris­se uno storico d'arte come Cesare Brandi che se ne inna­morò. Ecco un luogo che non sì dimentica e nel quale si desidera tornare. Tutti gli anni, e da tanti anni, d'estate, vi si fa bella musica e bel canto: rivisitazioni dotte e gen­tili del seicento, settecento , primissimo ottocento. Mon-teverdi, Handel, Bellini, Rossini, sono di casa. Ma anche Nicolo Piccinni, Saverio Mercadante e altri autori puglie­si e meridionali meno conosciuti ed eseguiti. Svizzeri, francesi, inglesi, tedeschi, da artisti o da spettatori si dan­no appuntamento nel cortile del Palazzo Ducale, chi per far musica chi per ascoltarla. Non mancano gli italiani, ma si nota con sollievo l'assenza dei presenzialisti che si accalcano alle prime, gli eventi, le inaugurazioni, gli an-niversari" nei luoghi e nel tempo" ecc. ecc. Questa en­clave di vera cultura musicale nel profondo sud - inso­spettabile nell'immaginario collettivo della repubblica leghista di Roncade di sotto - è nata dall'amore per la sua città del pugliese Paolo Grassi, uno che è stato an­che Presidente della Televisione Italiana quando vi si fa­cevano meno giochini e più cultura.

Matrimoni

Quanta tristezza di fronte alla fine precoce di unioni

nate sotto ottimi auspici, o almeno tali reputati. Al di là dei dolori dell'anima e della devastazione dei sentimen­ti si insinua nel ricordo il teatrino beffardo della cerimo­nia, sempre più solenne, costosa, e scandita su elaborati copioni dettati da mode imbecilli. Basti per tutte l'idea che ì già scarsi ritagli di intimità concessi agli sposi dal­la coralità celebrativa vengano monopolizzati dal foto­grafo-regista, banalizzati nel monumentale album di foto ricordo, mortificati nei filmini a soggetto; non c'è sorriso, sguardo, passo, gesto di tenerezza o di affetto che non finisca, violato ed estraniato da se stesso, nel rollino di celluloide. Col senno di poi e alla luce degli eventi, tanta enfasi celebrativa acquista un malinconico effetto moviola.

Forse gioverebbe maggior discrezione, nel momento in cui si trasforma in un patto di convivenza quell'amo­re che un poeta definisce come incontro e scontro dì due individualità - e lascia intendere che la strada per l'inte­sa non è breve né facile -. Non esistono ricette per sem­plificare il percorso, né ì'avvio in pompa magna garan­tisce alcunché. Si può provare, prudenzialmente, a in­vertire il gioco; un inizio irrituale, una promessa cele­brata con pochi intimi e drastica riduzione dei costi, for­se anche dei regali. Tutto più avventuroso ma può esse­re anche divertente. E poi? Se le due individualità sono riuscite a trasformare la loro convivenza nel corso degli anni in un piccolo capolavoro di equilibri instabili e non del tutto privi di fantasia si dia corso ai festeggiamenti. Dieci, quindici, venticinque, quarant'an.ru: tutte le date sono buone per riunire intorno a se, anche sontuosamen­te "se si può" amici gradevolmente sorpresi che la cop­pia non sia ancora giunta sull'orlo del divorzio. Ecco momenti di vera felicità, sia pure vissuti nella precarietà

di tappe di percorso, frammenti di un risultato che non arriva mai veramente alla fine. La vita in coppia è un'opera d'arte, non sempre un capolavoro, ma certa­mente un bene culturale in progress e irripetibile. E an­che assolutamente indipendente dal nastro di partenza.

Memoria

Cercate di averne abbastanza per ricordare le cose buone che vi sono capitate durante la vostra vita. I guai, le disgrazie, le cattiverie, i torti subiti conservateli in uno scaffale a parte: da consultare al momento opportuno, quando le circostanze presenti esigono che facciate teso­ro dell'esperienza per non ricadere in qualche tranello, imbroglio, errore fatale. Ma per carità, passata l'emer­genza rimetteteli a! loro posto. Non permettete alle brut­ture del passato di infelicitarvi !e ore e ì giorni. Se incon­trate qualcuno che nel raccontarvi fatti spiacevoli della propria vita dichiara che " non può dimenticare", cerca­te di aiutarlo a liberarsi di quella zavorra che gli appe-santisce il proseguimento del viaggio. E se non ci riusci­te, compiangetelo.

Merletti

Un merletto esalta la bellezza di una donna, ammor-bidisce i lineamenti di un volto segnato dal tempo o in­durito dai dolori della vita. Un merletto sul ventaglio ricama l'aria con garbo ed eleganza, sul grande e morbi­do cuscino rende amabile il sonno, sul lenzuolo invita

ad amorose battaglie, sul vassoio moltiplica il piacere di un thè e da godibilità ed aroma ad una tazza di caffè. Sull'abito da sposa intreccia speranze di felicità, sulle camìcie da notte disegna sogni voluttuosi, sul velluto diventa sontuoso, sul fazzoletto rinverdisce un moto di innocente civetteria, veste l'infanzia con tenerezza, nella lingerie seduce, nei dipinti antichi suscita un affettuoso, competitivo desiderio di passato, sul vetro delle nostre finestre disegna la luce del giorno e sfuma quella del tra­monto, sull'ottocentesco parasole impreziosisce un mon­do di ricordi, sulla cappa vaporosa suscita uno sfrenato bisogno dì raffinatezza. Un merletto non ha necessità alcuna di queste occasioni per manifestarsi. La sua esi­stenza si giustifica per la sola bellezza che gli è propria, basta a se stessa, godibilissima e straordinariamente di­sutile. Fatto per essere ammirato e desiderato, in assolu­ta gratuità, ovunque sì trovi; chi ha conosciuto il piacere di un merletto difficilmente potrà convivere con oggetti banali.

Concedetevi un merletto, o più merletti nel vostro vivere quotidiano; rilassatevi e fermatevi ad ammirarne la grazia tutte le volte che sareste tentati di correr via, prigionieri dell'impazienza. Se possedete antichi o nuo­vi merletti non lasciateli ammuffire nei cassetti ma go-deteveli, usateli, circondatevi della loro bellezza. Lascia­tevi affascinare dai nomi che percorrono la vita secolare di questi preziosi "beni culturali": punto Venezia, point de Paris, point d'Angleterre, merletto Malta, merletto di Bruxelles, punto di Burano, point de France, punto Va-lencienne e così via. Dietro a ognuno di questi nomi c'è una storia di luoghi, di tempi, di uomini e donne che hanno creato e trasmesso la loro arte di generazione in generazione, hanno dato libero sfogo all'immaginazio-

ne, e hanno creduto nella bellezza che usciva dalle loro mani. Sarà un piacere per voi, ripercorrere i sentieri di tanta vitale invenzione che arriva da lontano, e anche un atto di gentilezza verso coloro che vi hanno conser­vato, nel tempo, e non certo senza fatica, tante occasioni di felicità.

Mimi

Aveva grandi occhi azzurri che in tarda età manten­nero tutta la loro sorridente limpidezza. Allieva di De Pisis, moglie di Nello Quilici - perito in tragiche e oscu­re circostanze durante gli anni del fascismo - madre di Folco e Vieri, nonna di Brando e altri nipoti. Una vita intessuta di memorie e di presenze familiari vissute in­tensamente e affettuosamente, non ha impedito a Mimi Quilici Buzzacchi di restare fedele alla sua vocazione: raccontare il mondo attraverso colori raffinatissimi e un disegno sicuro. La sua è una pittura di cose e di luoghi -Ferrara, la sua citta, e i suoi lidi, il Tevere e Monte Mario come li vedeva dalla sua casa romana, le rocce di Anse-donia, i tetti e i monumenti della Roma antica, il Delta del Po, e alberi, pietre, fiori; talvolta passava la notte a dipingere un mazzo regalatole in occasione di una mo­stra - subito, diceva, prima che i fiori appassiscano -.Non descriveva le cose, Mimi, le trasformava in una delicata sintesi fra il loro modo di essere e il suo di vederle; c'era un margine di riconoscibilità immediata, per chi guar­dava i suoi quadri, e un margine di creatività da esplo­rare con l'occhio dell'artista. Si lamentava, ma senza gran corruccio, "non sono abbastanza astratta e alla moda con i tempi" [eravamo negli anni '60-'80'. Ma ere-

deva nella sua vocazione, con serenità e anche un pizzi­co di civetteria. Compra questo quadro, mi disse una volta, vedendomi un po' perplessa, " quando sarò mor­ta varrà molto di più". Talvolta esitava a vendere - era­no momenti della sua esperienza creativa da cui le era evidentemente difficile il distacco - taialtra generosa­mente regalava o vendeva per cifre irrisorie - ricordo certe sue bellissime acquetarti degli anni giovanili. Ora che Mimi non c'è più, non so se i suoi quadri sono au­mentati di quotazione sul mercato artistico. So di certo che averla conosciuta è stato un regalo della vita; per la freschezza e la serenità un po' contagiose del suo modo di guardare alle cose del mondo, per la cordialità affet­tuosa nell' affronta rie. Lei ha dipinto, io ha appreso un altro modo di guardare, forse non solo la sua pittura. Se un vero artista ha attraversato la vostra vita, fate che non sia stato invano.

Moda e mode

Non sia la moda a rendervi infelici, né le mode vi in­ducano in schiavitù. Per quanto banali e scontate queste regolette di bon ton verso se stessi non vengono mai rac­comandate abbastanza.

Perché si, di rispetto per se stessi e non altro è fatta la sana reattività di chi non va supinamente a rimorchio di moda e mode. Guardatevi da imperativi destinati acriticamente alla pazza folla, rifiutate le gonnelline ela­sticizzate se avete urv sedere autorevole, sfuggite alla mi­nigonna se le gambe non sono perfette, esercitate su di voi lo spirito critico di cui siete capaci guardando gli al­tri. Non usate vistosi parrucchini se tendete alla calvi-

zie, non vestitevi da capo a piedi come i giovanotti grin­tosi che occhieggiano dalle pagine pubblicitarie della moda maschile se non avete le physique dn ròle, e per carità evitate di farlo anche se J'avete. Se possedete un telefono cellulare siate eleganti e non posatelo sul tavo­lo del ristorante prima ancora di aver aperto la lista dei vini, non aspettate che suoni prima di spegnerlo - con compiacimento e contrizione - durante il concerto. Non controllate l'ora ogni cinque minuti se possedete un oro­logio che supera i due milioni di costo, e se lo fa il vicino alla riunione condominiale, con uno firmatissimo, esibi­te il vostro, targato Taiwan, con tutta la sicurezza di uno che non porta attaccata al polso la propria identità di persona. Immaginate che un furto o uno smarrimento gliela sottraggano all'improvviso e compiangetelo. Rias­sumendo: indossate ciò che piace a voi, che vi convince, vi abbellisce, fosse anche un vecchio merletto ottocente­sco, o la cappa mantello di Sherlock Holmes, assoluta­mente fuori gioco dall'imperativo del momento. Quan­to a mode, conquistate una volta per tutte l'orgoglio di srare fuori dal coro. Anche quando vi troverete casual­mente dentro ci sarà sempre qualcuno convinto che se lo avete fatto "voi" l'idea era proprio buona.

Morte

Ecco un appuntamento che anche il più distrarrò e ondivago degli esseri umani non potrà mancare. L'aspet­to più inquietante ma anche salvifico di questo inelutta­bile incontro è che "non si sa quando": una incertezza che produce tesori di speranza a chi sa approfittarne. Ciò

indusse certamente Catone ad iniziare lo studio del gre­co alla bella età di ottant'anni e un caro amico e mae­stro, Manlio Rossi Doria, scomparso senza aver comple­tato l'opera, a digitare, più o meno alla stessa età di Ca­tone, le proprie memorie su un personal computer. " Se non dovessimo andare proprio d'accordo, abbiamo pen­sato che sarà per poco" mi confidò qualche anno fa una coppia di pluriottantenni sposata da un mese appena; difficilmente potrò dimenticare quella frase carica di autoironia pronunciata nel tardo pomeriggio che illumi­nava di dolcezza crepuscolare un salotto Biedermeyer di Ivrea. Che bella lezione di vita da due che già ne ave­vano tanta, e importante, alle spalle.

Di una oscura e sotterranea paura non riusciremo mai a liberarci: "come" sarà la "nostra" morte? Meglio, tal­volta, lasciarsi distrarre dalle stupide preoccupazioni quotidiane e dimenticarla, questa paura che è anche una domanda senza risposta. Non ci spaventano le morti così sfacciatamente meiodrammatiche e letterarie di don Ro-drigo, madame Bovary, la monaca di Monza, ma se ab­biamo vissuto da vicino lo spegnersi lento della vita di una persona cara, un'agonia, una morte dolorosa, allora sì comprendiamo perché i credenti invocano nelle loro preghiere " una buona morte". A chi crede nell'aldilà i predicatori raccomandano di vivere bene la vita per as­sicurarsi una buona morte e in certo qual modo questo è vero anche per un laico che non si faccia troppe illusioni sul paradiso dei buoni; meglio arrivare all'appuntamen­to leggeri, senza troppi rimorsi e un curriculum dignito­so della propria coscienza. E per chiudere un capitolo assai avaro di felicità il verso, non proprio ottimista ma certo molto realistico, di Umberto Saba: " è il pensiero della morte, infine, che ci aiuta a vivere".

Muratori Ludovico Antonio

"Chi non sa che la perdita della libertà, ie calunnie,
le persecuzioni, le prepotenze, i timori d'insulti e di dan­
ni, e cento altre simili traversie han forza tale da rodere
ciascuna d'esse si fattamente il cuore dell'uomo che lo
fan divenire se non un covile, un nido almeno di malin­
conia? Ora datemi chi goda questo privilegio di non pro­
vare alcun male perturbatore dell'animo e corpo suo: se
costui ben l'intendesse, ha in sé il principal fondamento
dell'umana felicità. Non dirò io che il più grande dei
beni quaggiù sia il non avere alcun male; ma certamente
dirò che questo è un inarrivabil bene, a cui non dì meno
facciam si poca riflessione, o non ne conosciamo quasi
mai il pregio." Così il modenese Ludovico Antonio Mu­
ratori [1672-1750] - precettore di principi, bibliotecario
all'Ambrosiana di Milano, polemista e letterato - deli­
nea una possibile felicità umana inserita in una società
In cui l'individuo sia al riparo da "perdita di libertà, ca­
lunnie, persecuzioni, prepotenze e cento altre simili tra­
versìe
" Siamo già negli anni dell'illuminismo ma an­
cora la rivoluzione francese non ha intaccato l'assoluti­
smo ed è dunque aJ Principe, a chi detiene il potere che
il Muratori dedica quest'ultimo dei suoi scritti, che nel
titolo " della pubblica felicità" indicata subito dopo come
"oggetto dei buoni principi" assegna al monarca assolu­
to il compito di provvedere alla felicità dei propri sud­
diti, e non tanto per propria bontà d'animo quanto per
dovere intrinseco al proprio ruolo. Siamo sul crinale dei
grandi cambiamenti politici del diciottesimo secolo e il
Muratori che firma la sua dedica di "umilissimo devo­
tissimo e riverentissimo servo" al Principe Arcivescovo
di Salisburgo, da conto del dibattito in corso " fra i lette-

rati politici, qual sia da preferire fra i Principati, o quel­
lo, a cui si perviene coli'elezione, o pur l'altro che per
successione passa dai padri nei figli". Fuor di discussio­
ne le ottime doti di governo del Principe destinatario di
tanta dedica - la pubblica felicità tocca tutti i possibili
temi della vita sociale dalle scuole all'annona, dal debi­
to pubblico al controllo del lusso all'assistenza ai poveri
- l'autore lascia impregiudicata la scelta sul dibattito in
corso ai suoi tempi - anche ad eleggere chi ci governa -
osserva - si può sbagliare, quanto ai prìncipi per succes­
sione o designazione dall'alto dipende a leggere con

l'ottica attuale il suo linguaggio aulico si conclude che " ne possono capitare dì tutti i colori". Quanto a noi, let­tori e testimoni della prudente prosa muratoriana non possiamo che rinnovare a noi stessi un interrogativo vec­chio di alcuni secoli: visto che siamo così fortunati da non dovere la nostra pubblica felicità alle benevolenze del principe, siamo almeno capaci di eleggere governan­ti altrettanto solleciti verso analoga meta? E , assecon­dando l'invito del Muratori a riconoscere " il pregio di trovarsi liberi [ anche in via provvisoria ] da perturba­zioni dell'anima o del corpo" interroghiamoci ancora: siamo capaci di cogliere attimi talvolta fuggevoli, di fe­licità, o apparteniamo alla noiosissima e lamentosa schiera degli affezionati al mugugno?

Musica

Appartiene alle felicità difficili; bisogna aver avuto genitori lungimiranti e scuole intelligenti per non essere cresciuti da selvaggi e analfabeti di fronte al suono. Che pena leggere nel volto di troppe creature un'assenza che

è privazione e povertà ignorata, di gioie intellettuali ed emotive. Perché musica non è solo emozione; é anche un intenso esercizio della mente nel cogliere accosta­menti e analogie, nel riconoscere e riorganizzare i suoni e il loro significato, è consenso ed adesione a un model­lo astratto di creatività, è dominio delle proprie emozio­ni ma anche abbandono ad esse, è percorso nei tempi e luoghi in cui fu pensata, scritta, mille e mille volte ese­guita. Una musica ascoltata bene è una navigazione tri­dimensionale dentro e fuori di noi. Dire che ci arricchì-. sce è troppo poco. Dire che ci trasforma é troppo, se non per quei momenti in cui ci trattiene cuore e cervello den­tro le sue magie. Che in definitiva sono note e numeri, numeri e numeri. In questo mix di precisioni ed emo­zioni sta la difficoltà ma anche la grande qualità educa­tiva della musica ad una disciplina dell'anima di bellez­za struggente.

Romantica, classica, barocca, jazz: diversi i linguaggi e le emozioni, ma sempre attivo questo dialogo fra cuo­re e cervello, senza pietà per gli effetti facili, le leziosità, gli estraneamenti verso languori sentimentali. Da que­sto confronto la diffidenza per il rock e la musica di con­sumo: é un ascolto di straordinaria fisicità, ritmato su un costante, forse inconsapevole bisogno di distacco del corpo dall'anima, la ricerca di una felicità corporea libe­rata da ogni turbamento che venga da quel grande sec­catore che é il cervello. Insomma, una droga, con buona pace degli apostoli dell'allineamento paritetico di "tutte le musiche".

Napoli

Di questa straordinaria città si è detto tutto e il con-

trario di tutto, sviscerandone cultura e folklore, storia e mito, musicalità e temperamento; la si è osannata e cri­minalizzata, dipinta di tutti i colori possibili, in teatro e cinema, mentre letteratura e giornalismo hanno tatto la sua fortuna e la sua disgrazia, spesso tradendola nel de­nigrarla, ma anche, non di rado, nell'esaltarne i lati meno veri. Napoli è difficile, quasi quanto la felicità, ma quan­tunque sembri una pazzia parlarne in questo diziona­rio, desidero richiamarla fra i "luoghi" che suscitando creatività e fantasia, più preparano il nostro animo ad una condizione felice. Non citerò i luoghi bellissimi e conosciti tissimi delie guide turistiche ma non posso tut­tavia ignorare la Cappella dei Principi di Sansevero, luo­go per anni negato al pubblico, con il volto del Cristo morto ricoperto da un velo incredibilmente sottile di marmo trasparente. Mi rallegra sperare che mai più nel­la storia dell'arte occidentale si riprodurrà una "soavità del giogo coniugale" sotto forma di marmorea ed opu­lenta matrona che "Paulus Persico sculpsit 1767" e che fa bella mostra di sé nella dovizia di allegorie che cir­condano il Cristo nella Cappella.

A metà della fastosa scalinata di Palazzo Serra di Cassano, a Monte di Dio, una lunga lista di nomi eccel­lenti, incorniciati dal marmo barocco, ferma l'attenzio­ne del visitatore; nobili, prelati, artisti, letterati, uomini di cultura "decollati" o "impiccati" dai Borboni, ripor­tati sul trono dagli inglesi dell'ammiraglio Nelson, dopo la sconfitta della repubblica nata dalle speranze di giu­stizia e libertà della rivoluzione francese. Sono trascorsi quasi due secoli - era il 1799 - e ancora è vivissimo il ri­cordo di due donne - Luisa Sant'elice ed Eleonora Fonse-ca Pimentel, animataci e vittime di una lotta combattu­ta da pochi illuminati, su due fronti, con la strapotenza

militare straniera e l'ignoranza dei popolo lazzarone. Una pagina di storia che commuove e nobilita tutto un ceto della Napoli migliore, e induce a trovarne traccia nel presente, cosa non impossibile, nelle pieghe della vita culturale della città. Tra le sue bellezze un po' na­scoste, le grotte di San Germano, ad Agnano: un luogo di cura che ha del misterioso e dell'infernale con quelle pareti di tufo scavate dal tempo e dal calore in forme bizzarre che, se non fosse per le donne in camice bianco che vi augurano gentilmente "buon bagno" mentre si apre l'ingresso alla grotta in una nuvola di caldo vapo­re, potreste credervi sul punto di avere un appuntamen­to con Caronte. Quando rilassati e purificati riguadagna­te la luce del giorno vi attende la campagna incolta che circonda le grotte, dove le acque termali scorrono calde; nelle ore di prima mattina il reticolo di rivoli fumanti libera nebbie che conciliano pensieri svagati. Sfido chiunque a incontrare momenti migliori di questi per immaginare più qualità di vita. E se ve ne sono, Napoli è certamente un luogo che ne conserva tanti: ciascuno metta in moto la propria fantasia ed esca dai sentieri con­sueti della memoria per scoprirli, se in questa città ha vissuto, o si prepari a visitarla, se ad una prima volta, con curiosità un po' speciale.

Nemici

Meglio non impegnarsi troppo nei tentativo di non averne; si va incontro ad uno spreco di energie con scar­si risultati. Nemici spuntano ovunque; nel lavoro e in famiglia, nel condominio e in palestra, tra vicini a tea­tro, sulla spiaggia, in coda per lo sky pass, il taxi, la ban-

ca, l'ufficio postale. Le circostanze sono variabili indi­pendenti; talvolta agire o non agire provoca ugualmen­te la nascita di robuste inimicizie. Lo stesso si può dire per la personale propensione alle relazioni sociali; i tipi che dicono con chiarezza ciò che pensano, immediata­mente bollati per cattivi caratteri, sono destinati ad apri­re continuamente nuovi fronti conflittuali, ma non è af­fatto escluso che analoga sorte tocchi anche ai miti, dal temperamento conciliante. Poiché le inimicizie esigono almeno due interlocutori, ognuno con un proprio modo di intendere le cose della vita e i limiti fra i propri e al­trui interessi, tanto vale prender atto senza drammi di quel cinquanta per cento a rischio che si affaccia di con­tinuo nella nostra vita di relazione. I nemici vanno suc­cessivamente enumerati, memorizzati, suddivisi per ca­tegorie. Buona politica sarà quella di ibernarne il mag­gior numero possibile, dimenticandoli, perlomeno quelli con cui possiamo evitare lo scontro diretto. Per gli altri, gli attivi e dannosi, neutralizzarli con le armi dell'intel­ligenza, della furbìzia, se ne abbiamo. A volte anche le tattiche temporeggiataci producono soddisfacenti, risul­tati. Gli scatti di nervi vanno invece evitati; non si sa dove portano, magari alla scrivania di qualche avvoca­to, e in caso di scelta non oculata potrebbero generare altri nemici al momento delle parcelle.

Neve

Godiamoci il brivido di imprevedibilità che ci ralle­gra se, affacciati alla finestra, sorprendiamo fiocchi belli e vaganti che si posano, e resistono silenziosi, sui tetti, sugli alberi, sui fili elettrici, sulla strada. C'è qualcosa di

irrazionalmente gioioso nella lenta pioggia bianca che attraverso gli occhi ci accarezza l'anima. Arriverà il mo­mento delle assennate preoccupazioni, se il lieto evento si verifica in luogo poco frequentato da acque conden­sate in cristalli refrigerati: gli scarponi da indossare, le catene, magari arrugginite per il disuso, da applicare alle gomme dell'auto, bus che non camminano, il gelo in agguato, le pozzanghere, il fango ecc. ecc. Ma sul mo­mento prendiamocela tutta, e senza pentimenti, questa felicità un po' insensata e infantile, questa scorpacciata dì un piacere fantasioso e raro che ha qualcosa dell'in­cantamento e non ci va nemmeno di capire fino in fon­do perché ci piace così tanto. È un siparietto candido che ci separa dalla monotonia dei nostri paesaggi consueti, il sole, la pioggia, i colori lividi delle giornate burrasco­se, i grigiori delle nebbie, le uniformità notturne. Non godranno degii stessi piaceri i patiti delle settimane bian­che - raggiungerla, la neve, anziché esserne sorpresi, è bello, ma in altro modo -. Non mostreranno altrettanto entusiasmo coloro che vivono per mesi in luoghi inne­vati, né i malcapitati viaggiatori che rischiano ingorghi, paralisi e altri guai a causa della imprevedibilità e copio­sità dei fiocchi venuti dal cielo. La felicità da neve, è dun­que di alcuni e non di altri, a conferma che non tutte le felicità riguardano tutti e non tutti godono delle stesse felicità. Un pro-memoria sul fondamentale principio del­la relatività delle cose, appropriatamente affidato dalla nostra immaginazione ad un fiocco bianco, al quale basta un grado in più sul termometro per cessare dì esistere.

Nuvole

L'attesa di un temporale con cielo percorso da enor-

mi nuvoloni nero-grigi può renderci nervosi, se ci tro­viamo allo scoperto in un luogo privo di ripari e un ven­taccio umido preannuncia pioggia rabbiosa. Al chiuso, difesi dai vetri di una finestra, una scena così può di­ventare un bello spettacolo. Vi sono nuvole ornamentali - quelle rosa sparse come lenzuoli un po' stracciati nel cielo azzurro tenero di certe mattinate napoletane - nu­vole che colorano di sé un mare liscio e danno ragione alla tavolozza perlacea dei guazzi che descrivono il gol­fo. Ci sono nuvole compiici - eclissano a tratti lunghi o brevi una luna piena e sfacciata regalando momenti di intimità a innamorati stradaioli. Nuvole così, tra luci ed ombre, lunari, sono state usate spesso dai maestri del cinema specie in bianco e nero, per dare drammaticità a una storia, a una scena. Nuvole sontuose, rotonde, bian­chissime si rincorrono spesso nei cieli Veneti, tali e quali incantarono Tiziano Tintoretto e Giambellino. Le stesse, immobili e orlate d'oro hanno ispirato tanta iconografia dei santi ottocenteschi e si sono trasferite nelle immagi-nette con cui molti devoti imbottiscono il messale.

Chi vola oggi nei superjet acquista nei loro confronti una familiarità meno vedutistica, le attraversa in tutto il loro umido, solo immaginato, spessore, le supera ritro­vando il cielo sereno, osserva dall'alto il loro modo biz­zarro di avviluppare i picchi montagnosi. Le nuvole fan­no parte della nostra vita, la arricchiscono di immagini. Non siamo pittori né pionieri come Lindberg e Saint-Exupery, ma abbiamo occhi per vedere e una mente per scegliere, ed esse, che hanno accompagnato la creatività di artisti e precursori del volo non meritano un po' della nostra attenzione? Qualche emozione nuova la riserve­ranno anche a noi.

Olivetti Addano

La straordinaria avventura culturale e umana di Adriano Olivetti si snoda nello spazio di un venticin­quennio, dalle prime esperienze editoriali a metà degli anni '30 alia esemplare rivista "Comunità", ai libri di fi­losofia politica, all'impegno diretto, aziendale e politi­co, lungo tutti gli anni cinquanta, fino alla sua morte, in solitudine su un treno fra l'Italia e la Svizzera, alle so­glie del 1960. Il ragazzo dagli occhi celesti e la pelle dia­fana che il padre Camillo aveva mandato a lavorare in fabbrica, da operaio, che aveva salvato alcuni antifasci­sti eccellenti attraverso il confine svizzero, che aveva fat­to il suo tirocinio "americano" prima di diventare il pre­sidente della società che costruiva macchine da scrivere, quel ragazzo aveva un sogno: che il lavoro non fosse una brutale condamia che si portava via la vita degli operai, che la fabbrica non fosse un luogo ostile al territorio, che la giovane industria italiana riuscisse a bruciare i tempi e fare importanti salti di qualità. Non fu un caso che Oli­vetti finanziasse la ricerca su un maxi elaboratore elet­tronico alla Normale di Pisa in anni assai lontani ancora dalla rivoluzione informatica. Da grande, l'ingegner Adriano conduceva l'azienda con polso d'acciaio e lun­gimiranza; il sogno non lo abbandonò mai e a Ivrea, sede della fabbrica madre, e nel Canavese, la vita aziendale e quella del Movimento Comunità camminavano insieme, nutriti dalla ricerca di tecnici, designers, operatori cul­turali - un gruppo di intellettuali, vivace e cosmopolita, visto con qualche diffidenza dalla città sonnolenta e tra­dizionalista -. Il mondo confindustriale ironizzava: "tut­to serve a vender meglio le macchine da scrivere". E in­tanto gran parte dell'industria italiana si preparava con

le proprie stesse mani l'ingorgo immigratone) e la satu­razione degli insediamenti al Nord, che avrebbero por­tato alla contestazione e agli anni di piombo, mentre Olivetti investiva al Sud e scriveva alla Stampa di Tori­no per difendere l'efficienza degli operai dello stabili­mento di Pozzuoli dai pregiudizio piemontese sui "me­ridionali". A Olivetti non si perdonava di avere danaro e idee e la pretesa utopistica di spendere l'uno per rea­lizzare le seconde. La sua presenza in un habitat dedito al cinismo del potere suscitava crisi di rigetto. Oggi non sarebbe diversa la sua condizione. Egli appartiene ad una esigua schiera di italiani eternamente fuori tempo rispetto alla maturità del loro paese; degli sradicati che vedono e sentono in anticipo Le pulsioni giuste per una crescita civile, e non di rado attraversano indenni ma inascoltati per tutta una vita, il deserto di mediocrità che gli è toccato come patria. Alla quale tuttavia restano osti­natamente fedeli. La fecondità della loro utopia, a dispet­to dell'apparente sconfitta, è ricca di risultati; il primo, e più importante, la voglia di non interrompere quel dia­logo difficile con il proprio paese che la loro testimonian­za ha sollecitato in noi, e in chi verrà dopo.

Paesaggi

La natura ci offre infinite occasioni di felicità che noi ignoriamo perché distratti da altro. Passiamo accanto ad un cespuglio di pitosforo con i bianchi tenerissimi fiori che si aprono ed esalano il primo soffio di profumo ma il nostro cervello elabora nuove trappole per ingannare il fisco, e via. Un fi umida ttolo, con le sue erbe sommer­se e fluttuanti, 1<ì mutevolezza del colore nelle ore della

giornata, il suono delle acque che precipitano da una chiusa, tutte cose che non ci impressionano se stiamo con la testa alle baruffe in corso sulla tomba di famiglia, E che dire di certi tramonti dai colori sgargianti e limpi­dissimi del tardo autunno che disegnano profili gloriosi anche fra le mura cittadine? Mai visti, se in macchina o a piedi si rimugina, a capo chino, su come organizzare il prossimo week-end rubando mezza giornata all'ufficio e scansando inviti di suoceri e suocere. Basterebbe riser­vare pensieri così assorbenti e "delicati" agli angoli bui della giornata [la metropolitana, il salotto del dentista, l'anticamera dell'ufficio passaporti della questura, la coda per il taxi], e tenere gli occhi attenti per vedere di più quando si cammina. Non la sola campagna ci offre momenti di grazia; se siamo animali metropolitani ricor­diamoci che il paesaggio urbano è ricco di sorprese in quanto a pietre, colori, piante e creature viventi a due e quattro zampe. Anche un gatto disteso con nonchalance su una cariatide di travertino o un piccione che si abbe­vera alla fontana del Berninì fanno paesaggio, e da si­gnori. Basta saper vedere. Come hanno fatto molti gran­di fotografi cogliendo, sulla strada, tanti e diversi bran­delli di vita.

Patria

Non possiamo farne a meno, non sappiamo goder­ne. La parola fa paura, evoca fantasmi retorici, fastidiosi sospetti guerrafondai. Della patria, al presente, ci addo­lora la pochezza: vizi, trasgressioni diffuse, scarsa virtù civile. Una patria di ladri, evasori fiscali, esportatori di capitali all'estero, baroni universitari, di automobilisti e

motociclettari che passano col rosso e vanno controma-no, di rumoristi in discoteca e fuori, di falsi invalidi, baby pensionati, ladri di polli in prigione e maxi tangentisti che si godono le mazzette all'estero, di infermieri auto­rizzati a maltrattare i malati, di chirurghi che partono per la settimana bianca dimenticando un guanto nei vi­sceri del paziente. Per recuperare un po' di ottimismo proviamo a voltare pagina, visto che la normalità - quel­la dei cittadini probi - non fa notizia, ma esiste e fa parte a tutto titolo della patria con la P maiuscola. E soprat­tutto non abbandoniamoci alla deriva del presente, che incombe, ma non è tutto. Patria è un linguaggio che ci mette subito in un rapporto di appartenenza comune, sono le cento città, i mille luoghi dove possiamo andare liberamente, riconosciuti per una fratellanza naturale; chi è vissuto esule in luoghi stranieri sa che nessuna an­che affettuosa accoglienza equivale a quella familiarità in cui non è fatica darsi il buongiorno da figli della stes­sa storia, partecipi della stessa tradizione. In questi in­contri le differenze si misurano sui margini di una stes­sa cultura, quasi il liquido amniotico della nostra e al­trui nascita. Patria è una felicità ignorata fino al momen­to della privazione è il godimento, spesso inconsapevo­le, di un patrimonio culturale sedimentato nel tempo; i poeti, i musicisti, gli scrittori, gli ingegneri, gli orafi, i contadini, gli artigiani, i produttori di beni materiali e immateriali di cui oggi godiamo sono anch'essi la pa­tria. Il loro ingegno, la loro fatica, le sofferenze, ìe gioie e le disperazioni creative, la miseria, le frustrazioni, le esperienze, tutto è stato metabolizzato e si è fatto parte di ognuno di noi. Patria è un luogo dell'anima straordi­nariamente generoso: ci lascia l'illusione di non averne proprio bisogno, ci accompagna nelle nostre peregrina-

zioni, asseconda le nostre curiosità sulle altre patrie, ci consente di sentirci cittadini del mondo, forti di una so­lida radicata, seppur un po' misconosciuta appartenen­za.

Paure

Ve ne sono di tutte le specie: di viaggiare, di volare,

di entrare in un luogo buio, di salire nell'ascensore, di essere punti da una vespa o sfiorati da un moscone, di andare in una automobile guidata da altri, di affidarci alle scale mobili o a un tapis roulant. Sottostimate e co­munemente definite "fobie" restano tuttavia dei fatti tor­mentosi, occasioni di disagio, anche quotidiano, debo­lezze per le quali veniamo osservati e giudicati dagli al­tri. Sarebbe opportuno non avere paura delle nostre pa­ure; riconoscerle e parlarne, senza ostentazione ma an­che con un po' di ironia; è il modo migliore per afferma­re il nostro diritto a tenercele tutte.

Ci sono poi le paure "grandi", quelle che non si di­menticano ma che è bene archiviare in qualche angolo del cervello senza tenersele sempre in evidenza: aver subito un grave intervento chirurgico (ah! quel sonno in cui si precipita ignorando se ci sarà il risveglio), la rapi­na in banca con relative minacciose frasi e gesti da film noir, il vuoto d'aria mentre si volava a diecimila metri sulle montagne svizzere e così via.

La più insidiosa, perché non si fa riconoscere facil­mente, è la paura di vivere. Le ambiguità, i depistaggi, le giustificazioni a posteriori sui fatti e svii comportamen­ti non mancano. Eppure alcuni sintomi parlano chiaro: un perenne cattivo umore nei confronti del presente che

solo quando diventerà "passato" si rivelerà rifugio e luo­go di felicità, fughe in avanti continue e persistenti in un futuro mitico e immaginario, fatalistico immobilismo prima, e vittimismo dopo, di fronte a qualsiasi decisio­ne che comporti rischio o semplicemente responsabilità. Paura di vivere è malattia dalla quale si può anche desi­derare di non guarire mai. Ma se a un certo punto della nostra vita ci rendiamo conto che non ci ha aiutato ad essere più felici potremmo forse cambiare idea.

Pazienza

Considerata virtù un po' in disuso dai cristiani, ar­rendevolezza colpevole dai cultori della vita ferocemen­te vissuta sopra le righe, disdegnata da molti: la pazien­za è un caso disperato, oggetto di scarsa considerazione nel viver comune. Viene da lontano la sua sottostima, e vanta echi millenarii gli eroi della pazienza non suscita­no ammirazione; al massimo vengono compatiti come accade a Giobbe. C'è tuttavia una possibilità di riscatto per tanta disprezzata attitudine: a piccole dosi, e nei mo­menti giusti, la pazienza può esercitare una salutare in­fluenza sulla nostra salute, evitare inutili scariche di adrenalina nel sangue, consente una retromarcia morbi­da davanti a imprevisti senza scampo, aiuta a dare una dimensione relativa, e dunque sopportabile, al disastro che ci sta capitando. Se si esclude la morte - evento irre­parabile e alquanto doloroso - ogni altro sgradevole ac-cadimento può giovarsi di questo ammortizzatore, squi­sito impasto di emotività e intelligenza. La felicità non è garantita ma lo stress è neutralizzato. Questa perorazio­ne a favore delle pazienza fu scritta quando un treno

cosìdetto "rapido" e in ritardo di due ore stava per bru­ciarmi un importante appuntamento di lavoro. Confes­so di aver trascurato, in seguito, la prevista richiesta di rimborso alle Ferrrovie dello Stato: ho temuto di mette­re a troppo dura prova la mia pazienza nell'affrontare lo sportello.

Pellicce

È inutile illudersi: verdi ed ecologisti vi hanno tolto l'innocenza con cui fino a qualche anno fa indossavate la pelliccia. Ogni volta che la tirate fuori dal guardaro­ba, perché fa effettivamente freddo o perché avete un appuntamento mondano, sbuca fuori da qualche ango­lo buio della stanza il cucciolo del manifesto "mia ma­dre aveva una pelliccia come la tua prima di essere am­mazzata". Vi domandate anche, mentre uscite di casa avvolta nella vostra morbida pelle di cadavere se incon­trerete ancora, all'ingresso del teatro quella ragazza che regala alla vostra amica in paltoncino nero di panno e velluto, un fiore con biglietto " grazie per la sua elegan­za senza crudeltà". Insomma, dal possesso del morbido capo d'abbigliamento non più "status" né piacere ma confuso nervosismo e vaghi rimorsi. Non rammaricate­vi : a forza dì essere contestata la pelliccia di vero pelo sta uscendo dalla moda, nonostante la rimonta pubbli­citaria in corso, da parte dì importatori conciatori sarto­rie specializzate ecc. Se la vostra pelliccia è un po' vec­chio stile, denuncia gli anni ed esìgerebbe una costosa sostituzione, regalatela a qualche ente benefico che assi­ste extracomunitari e toglietevi il pensiero facendo ope­ra di bene. Quanto alle morbide calde e ìeggerissime

pellicce ecologiche che potrebbero attrarre, a questo pun­to, la vostra attenzione, ve ne sono in giro per tutti i gu­sti e per tutte le tasche: dalle firmatissimc di sartoria, alle pur eleganti dei grandi magazzini. Quella che avete ab­bandonato alla pubblica beneficenza, fra le tante crudel­tà che noi uomini esercitiamo sugli animali non è forse la peggiore, ma certamente è fra le meno necessarie. Sia­te felici perciò di esservene liberate.

Pensione

Non paventatela, non invocatela. Non è questa dolo­rosa fine della vita attiva, questa ineluttabile disutilità della persona come spesso viene interpretata dal comu­ne sentire. Non fate il torto alia vostra vita di conside­rarla divisa in periodi scanditi dalle "funzioni" esercita­te. Abbiamo una sola anima, una mente, un cuore che crescono da quando andiamo all'asilo fino al giorno -speriamo il più lontano possibile - in cui lasciamo que­sto mondo, in un unicum meraviglioso e senza paratie stagne. Evitiamo che qualche parente zelante ci rifili a tradimento nel nostro necrologio la dizione ex magistra­to o peggio " dirigente generale delle poste in pensio­ne." In proposito lasciate precise istruzioni. Non invo­catela con troppa leggerezza; potreste avvertire pesan­temente il disagio di una disponibilità economica decur­tata di premi gratifiche e altre diavolerie che le aziende inventano per aumentare la produttività dei propri schiavi. Potreste anche sgomentarvi di fronte all'im­provviso mutato rapporto fra tempo libero e tempo oc­cupato; concedetevi una pausa di riflessione prima di buttarvi a capofitto in un lavoro pagato in nero per in-

crementare le entrate e riempire il vuoto delle vostre giornate. Dedicatevi ad uno scrupoloso calcolo di costi e benefici e valutate quali e quante cose che vi sono sfug­gite mentre eravate affannosamente in carriera potreste fare ora: occuparvi meglio della vostra salute, passeg­giare di più e godervi la natura, leggere i libri mancati da tutta una vita, ascoltare musica se vi piace, accarez­zare il vostro gatto che ne sarà felice e vi ricambierà af­fettuosamente.

PERSONE



Lettore: lasci che esprima le mie perplessità sull'uso,
di nuovo molto arbitrario, che Lei fa, del suo dizionario.

Autore: a che proposito?

leti.: nomi di persone tra le voci. Come scelti? Con
quale criterio? Passi per alcuni, di fama universale. Ma
altri? Saranno pure amici suoi, avranno anche indiscuti­
bili meriti civici, o artistici. Perché dovrebbero interes­
sare me, e in quale modo rendermi felice?

aut. non ho questa ambizione; desidero solo testi­
moniare, e non posso farlo altrimenti che attraverso la
mìa personale esperienza, quanto possano certi incontri
arricchire la nostra vita. Con Rossini e Cajkovskij le emo­
zioni sono state fortissime, ma, naturalmente, di segno
opposto. Essi hanno toccato punti totalmente diversi
della mia sensibilità estetica ed è stata già questa sco­
perta un bel motivo di felicità. E Le risparmio Verdi.
Mozart, Vivaldi e Wagner.

kit. grazie della cortesia. Mi dica piuttosto qualcosa
degli altri, quelli che ha conosciuto personalmente.

aut. nulla posso dirLe più di quanto ho già scritto
su di loro. Hanno contato nella mia vita perché il loro
modo di essere mi ha insegnato qualcosa, mi ha in certo
qua! modo segnato. Non importa se per ragioni morali,

estetiche, affettive. E non le pare questa lezione di vita "dal vivo" una bella occasione di felicità? Lei è stato così sfortunato da non incontrare mai sulla sua strada perso­ne da cui apprendere qualcosa? Ci pensi. Se mi sono permessa di citare pochi casi che mi riguardano, l'ho fat­to per indurla a pensare ai suoi. O lei appartiene forse a quel genere di persona graniticamente rinchiusa nel pro­prio modo di essere, e dunque impermeabile a sollecita­zioni esterne? Se è così certamente alcune felicità Le sono negate. Glielo dice, con dispiacere, chi non esclude che si possa imparare qualcosa anche da un gatto.

Piaceri della tavola

Appartengono alle possibili forme di felicità ma fra le più contrastate, e anche incongruenti. Mentre a tavo­la, il palato gode, il cervello si contorce nelle spire delle calorie, i trigliceridi, il colesterolo. Se amiamo le confet­ture dolci i nostri occhi si deliziano davanti alle splendi­de tentatrici vetrine delle pasticcerie di città come Tori­no, Palermo, Ivrea, Napoli, per non parlare delle ciocco-laterie svizzere che ricordano così da vicino le esposi­zioni di gioielli e orologi per raffinatezza ed eleganza delle confezioni, o del profumo di antiche delizie mitte­leuropee che si sprigiona dalle botteghe dolciarie di Tri­este. Ma intanto, quali mortificanti messaggi trasmette il nostro cervello allo stomaco? "Ti piacerebbe? Ma non devi". E ci allontaniamo con un gran vuoto nel cuore. Stessa sorte è riservata a chi è naturalmente portato ad ammirare le esuberanti esposizioni norcine, parmigiane, altoatesine, calabro-lucane; peggio ancora se alle tenta­zioni dell'occhio si accompagna lo stuzzicante profumo

di salsicce e prosciutti caldi e arrostiti che, specie d'in­verno, ci assale nel freddo dei marciapiedi, agli ingressi di buffet e birrerie. Come sottrarsi al tormentone del "vorrei ma non devo"? Se non siete vegetariani ultra o diabetici, se non vi trovate in sovrappeso critico abbiate pietà di voi stessi e prendetevi una tregua, sospenden­do dalle sue funzioni il vostro Super Io. A qualche supe-raccidioso amico intenzionato a disciplinare con severi sguardi la vostra momentanea anarchia comunicate con il miglior sorriso che state eseguendo le prescrizioni del dietoiogo. O anche, non dite niente: non siete tenuti a giustificare le vostre parentesi di felicità. Immaginate che sia giunto il momento di concedervi - un "carpe diem", dal Poeta riservato ad altri piaceri, e da voi trasferito a quelli della tavola, senza rimorso alcuno.

Poesia

Molti di noi hanno smesso di occuparsene dopo gli anni della scuola. Esercizio di memoria o di interpreta-zione filologico-letteraria, la poesia non ha retro al no­stro impatto con la vita. Che peccato! Ci siamo lasciati alle spalle, con tanta leggerezza, una visione a più di­mensioni delle cose, uno spessore inavvertito che però le attraversa e le scompone in un gran numero di sugge­stioni ed emozioni. Tutto perduto, tutto appiattito in una quotidianità povera di colore. Provare per credere: ria­prite un vecchio libro di scuola, oppure cercate nello scaffale le raccolte di poesie trascurate per tanti anni. Lasciatevi condurre dai ritmo proprio dei versi, sforza­tevi di riaprire un dialogo con quelle parole che doman­dano di essere interpretate al di là del loro significato, e

da sole aprono un fascio dì luce, quasi un laser, in una nebbia di emozioni che diradandosi scoprono altri pae­saggi delranima. Sentite ora di muovervi con il pensie­ro e anche con il sentimento su nuove lunghezze d'on­da? Avvertite quella impercettibile ma anche acuta feli­cità di un confine superato? Un presentimento di mag­gior ricchezza , un profumo di novità nel vostro sguar­do alle cose? Se si, ci siamo! Avete riconquistato con la poesia una parte di voi stessi che avevate perduto.

Pubblicità

C'era una volta il prodotto che cercava il mercato, e il mercato a sua volta anelava al prodotto. Incontrarono una mezzana che prometteva di accontentarli. Questo succedeva ai primardi della civiltà delle macchine; la mezzana raccolse intorno a sé artisti, designer, creativi e impreziosì di locandine i locali pubblici e di manifesti i muri delle città. Ricordate i vecchietti del cacao, le dante languorose della prima "Rinascente", le amazzoni ram­panti delle quattro ruote di Dudovich? Con la radio e la televisione la mezzana entrò nelle nostre case. Dopo il "formato famiglia" del Carosello dei desideri anni '60, la pubblicità si è trasformata nella fabbrica delle frustra­zioni; essere "in" o "out" a seconda dei prodotti che si usavano per la pulizia della ca^a, le toilette:? personali, i liquori prima e dopo i pasti, la marca di lucido per scar­pe, di biscotti, cioccolatini, orologi, cravatte, e così via, è diventato il gioco più in voga del consumo telecoman­dato. Al limite della saturazione informativa il messag­gio pubblicitario alza sempre di più, oggi, il volume au­dio dello spot e ingaggia una guerra disperata con il te-

lecomando, spara messaggi violenti e rapidi - e immagi­ni sado-maso - più per affermare la propria esistenza che la propria credibilità. Stanche di essere infelici perché non hanno imbroccato l'acquisto giusto secondo l'ingor­go pubblicitario le madri di famiglia, anche quelle tito­late e benestanti con governante di colore al seguito, fre­quentano sempre più spesso gli scaffali disadorni degli ipermercati discount dove si allineano prodotti non gra­vati da "passaggi" in tivù, e quindi meno costosi: pro­vano, scelgono, selezionano, decidono in proprio se il bianco è il più bianco, il biscottato è morbido e se whisky e cioccolato sono indispensabili al prestigio della fami­glia. Il campo è confuso, per il momento: quelli e quelle che hanno deciso di entrare nel club degli "autodiretti" e di essere consumatori felici o infelici in proprio, senza subire messaggi multimediali, sono ancora pattuglie mi-noritarie ma crescono al ritmo di un cinque per cento annuo. La prossima frontiera contro l'eterodirezione multimediale sarà la moda; quando giovani e meno gio­vani si convinceranno che top model con treccine africa­ne e giovanotti tenebrosi in giacca e occhiali nerissimi non rappresentano il massimo dell'ideale di bellezza, aumenterà il tasso di felicità possibile nel villaggio glo­bale.

Radici

Parola affascinante, abusata, equivoca; rasenta di con­tinuo l'enfasi, rischia la retorica, e piace. Non sentitevi obbligati ad avere "radici"; non è indispensabile. Siamo già gravati abbastanza da un coacervo di disparate va­riabili - ovuli e spermatozoi che si sono incontrati in

percorsi convulsi e avventurosi, genitori che hanno mes­so su famiglia provenendo, talvolta, da mondi del tutto diversi, o al contrario, prevedibili fino alla noia, alberi genealogici esposti alle più bizzarre combinazioni, luo­ghi di nascita determinati dalle carriere paterne, antena­ti illustri e perciò opprimenti, birichini di cui vergognar­si, spendaccioni che ci hanno lasciato in miseria -. Una minuziosa ricostruzione degli eventi che hanno prece­duto e seguito i nostri primi vagiti sul pianeta può esse­re rassicurante ma non costituisce un radicamento ri­spettabile. Né lo si individui nei luoghi, o nelle persone. Avete provato a tornare nel teatro della vostra infanzia o adolescenza dopo anni di lontananza per avvertirvi più che altro un doloroso estraniamento? E il dialogo con le amicizie di un tempo? Che dire di quel rivangare me­morie rese nebbiose e inerti dalle troppe e incomunica­bili esperienze e dalla diversità che ne è seguita? Le ra­dici sono bersagli mobili, ce le portiamo appresso, sono forti e rassicuranti se abbiamo saputo suscitarle da un uso creativo di tutti i brandelli di vita che ci sono toccati in sorte; non c'è luogo, persona, circostanza, che possa darci radicamento più rassicurante di una bella sporta di autoconsapevoJezza, anche problematica, di noi. Per-sino l'idea di una Patria, luogo proprio di radicamento per lingua usi costumi leggi, comune sentire, vale poco senza una inferiore, anche affettuosa, partecipazione. Le radici non stanno ad aspettarci dietro un angolo morto, non sono a portata della nostra pigrizia mentale, sono una conquista del mestiere di vivere.

Radio

Amo la radio se non mi sveglia al mattino con i prò-

fumi virtuali di succulenti precotti da consumare a ora di pranzo; se non mi costringe ad un allarmato consulto medico per verificare lo stato di salute del mio apparato renale; se non mi induce all'acquisto intempestivo di un'automobile sgommante dentro gli altoparlanti o ne­gli auricolari.

Per dirla in parole povere amo la radio senza pubbli­cità. Il mio è perciò un amore difficile. Devo destreggiar­mi fra reti e programmi per cogliere la mia amata com­pagna di vita nei suoi momenti migliori, quando mi of­fre musiche di Mozart, Haydn, Bach. Più di rado Vivai-di, Corelli, Geminiani, Frescobaldi, riservati quest' ulti­mi alle prime ore del mattino, quelle che, per universale riconoscimento, hanno l'oro in bocca. Dribblare messag­gi sgraditi diventa più laborioso in automobile e in cuci­na, con le mani attaccate al volante o impastate nei pas­satelli in brodo. Diverso - quasi un contemplativo eser­cizio voga - lavorare di cesello in poltrona con il teleco­mando, depurando dalle dirette della lirica le cronache dei Vip presenti in sala, la descrizione del look di signo­ri e signore, la nota di colore sul menù offerto dopo tea­tro dallo sponsor.

Come tutti gli amori difficili le crisi sono ricorrenti; quando l'onda d'urto dei consigli per acquisti travolge le già travagliate esistenze dei Promessi Sposi, introdu­ce una nota di volgarità estemporanea nel Decamerone, si insinua subdolamente nel Giardino dei Finzi Contini. E il dolore è grande quando altri abusano di "Lei" con il telefono e il quiz.

È ben vero, dunque, che "amor vuole sofferenza" e con rossiniana rassegnazione ogni giorno riaccendo quel bottone col timore di antipatiche novità del palinsesto o di agguati dei persuasori subliminali o palesi del consu-

mo; "Lei" ed io, sappiamo tuttavia come difenderci e godere insieme momenti di autentica felicità.

Ravenna

Molti anche fra i più colti e i meglio dotati, per aral­dica o beni materiali, cittadini di questa antica capitale, amano rivendicare nel rapporto con. la terra la propria più genuina natura, fatta perciò di solido attaccamento alla sostanza delle cose. Una terra che antiche subsiden­ze condannano alla contiguità con il mare, in un rappor­to domestico e conflittuale. Ravenna è città che si espri­me in modo struggente e magnifico attraverso le sue pie­tre. Città di atmosfere rarefatte a causa del silenzio e delle nebbie che avvolgono i suoi monumenti e quasi soffocano i segni della sua operosità. Pinete e paludi ac­centuano il suo carattere di isola-centro di potere di una particolarissima storia dell'età di mezzo, e ancor oggi le gelide "galaverne" che imbiancano i pini nella stagione fredda e i calori umidi dell'estate la difendono da pre­senze troppo invasive dei moderni barbari guidati da tour operators. Ma il richiamo delle sue chiese un po' misteriose e dei suoi mosaici incantati cresce incontrol­lato, senza tuttavìa aver intaccato la sua elegante "nor­malità" di città di lavoro e di gusto del buon vivere. Da anni si fa musica a Ravenna, specialmente d'estate, con sempre più intensa ricerca di qualità e anche un pizzico di mondanità cui gli abbronzatissimi ravennati - uomini e donne - si abbandonano partecipi, alla pari con i molti ospiti stranieri. Lo "straniero", villeggiante della costa, turista, musicofilo, è in ogni caso accolto cordialmente, nutrito secondo la dedizione tutta romagnola ai piaceri

della tavola, senza esplosioni godereccie, come se le memorie bizantine di Giustiniano e di Galla Placidia evochino ancora il gusto per una cerimoniosa, discreta, disciplina di Corte.

Ricardo Cesar Perez Megember

Chi si ricorda più di Ricardo Cesar Perez Megember? Eppure il suo volto ancora smarrito dal terrore, le sue braccia che stringevano un siamese rimpannucciato in un asciugamano, le mani contratte in un gesto di pos­sesso e felicità hanno fatto il giro del mondo, nelle cro­nache di tutti i giornali dedicate al disastroso terremoto messicano del 1985. Questa storia metropolitana, immor­talata dal fotoreporter John Storey per il San Francisco Examiner dice che Rìcardo e il suo amico a quattro zam­pe sono fuggiti per ben dodici piani di scale prima che il palazzo in cui vivevano a Mexico City crollasse. Ed ora eccoli, i due, sinistrati e privi di tutto, alla pari, per le strade della città sconvolta. È un'immagine, quella di Ri­cardo e del gatto, che trascende l'amicizia di un uomo con il suo animale di compagnia: ci riporta al bisogno primordiale di protezione che ci accomuna, uomini e bestie, di fronte al potenziale distruttivo che la natura scatena da sola o per la nostra azione invasiva, ed eccoci in balia di forze incontrollabili, in preda alle stesse pau­re, agli stessi disagi, ricondotti alla stessa povertà; forse, ma non sempre, con diversa facoltà di capire quello che sta accadendo - e ciò attutisce o acuisce le sofferenze ma non ottunde le sensibilità né la capacità di dolore fisico, e non solo. Ciò che talvolta induce gli umani a gesti di solidarietà verso i fratelli meno dotati appartiene ai mo-

menti difficili dell'esistenza, ma quanta inutile infelicità gli uomini riservano al mondo degli animali, nella vita di tutti i giorni, con manifestazioni di ordinaria quoti­diana follia. Non voglio stilare qui un doloroso elenco di cattive azioni : chi "sa" deve domandarsi " si può es­sere veramente felici in un mondo che riserva trattamen­ti bestiali a molte specie di creature viventi?" Fra le cat­tive azioni un posto di riguardo va a quei lettori che scri­vono al loro giornale lamentando che i difensori degli animali maltrattati non diano altrettanta importanza alia fame nel mondo o alle guerre fratricide sparse nei vari continenti. Come se esistesse una gerarchla nella ripro­vazione della cattiveria e del malaffare esercitati dai fi­gli di Adamo.

Riconoscenza

Ecco una parola in disuso; essere grati, o riconoscen­ti odora di terza età, un po' fuori corso. Guardare avanti è giovane, significa puntare sul futuro. Riconoscenza è un sentimento complesso, arriva tardi, quando si sono smaltite tutte le illusioni sull'onnipotenza del proprio io, quelle adolescenziali, confuse e turbolente, quelle gio­vanili e quelle degli anni ruggenti, in carriera, quando si è disposti a infilzare senza pietà tutti gii ostacoli, umani e non, che si frappongono alla "meta". Riconoscenza è anche autobiografia critica di se stessi, e dunque per non creare equivoci predicatori dirò qualcosa sui miei moti­vi di "riconoscenza" e ognuno sì arrangi con ì proprì, se ne ha. Sono riconoscente a mia madre perché da bambi­na ero cagionevole di salute e sono stata curata con af­fetto e sacrifici. Ai miei professori di storia e filosofìa'.

hanno preso sui serio i miei balbettamenti, mi hanno in­coraggiato a pensare, ed è stato per la vita. Al mio pro­fessore di matematica: severo ma anche benevolo con la mia idiosincrasia per i numeri, mi ha insegnato a convi­vere con i miei punti deboli. Ad un prete: ha incanalato in un alveo virtuoso una eccessiva fantasia adolescen­ziale. A Bertrand Russel; più di Einstein e di Emanuele Kant mi ha ricondotto alia relatività delle fedi. Alle per­sone che mi hanno voluto bene con discrezione, senza farlo pesare. Agli uomini che ho amato: ho imparato " quello che si deve sapere sul sesso e che padri e madri non ci confidano mai", ma anche le cattiverie difensive che, da figlia unica, erano mancate nel mio tirocinio fa­miliare alla vita. A mio marito: mi ha abituato a distin­guere un laico democratico dai clericali di sinistra che spesso per troppa religione perdono la bussola e sconfi­nano in territori inusitati. A donne e uomini che hanno creduto e credono nelle idee che professano e si com­portano di conseguenza; non ne ho incontrati moltissi­mi, ma sufficienti per guardare con ottimismo al futuro. Chissà quanti ritagli di vita, e quanti motivi di ricono­scenza, si potrebbero ancora trarre dal pozzo dei ricor­di. Ma già così l'accumulo di piccole e grandi felicità postume è notevole. Voglio aggiungere un'ultima rico­noscenza, e mi scuso del ritardo: ai gatti, che numerosi hanno allietato le mie case, e a quelli che tuttora si de­gnano di vivere con me: le loro vaghe passeggiate da una stanza all'altra, le soste in scrivania, i giochi eleganti, sono quotidiane occasioni di impercettibili piaceri. Un gatto ha sempre l'aria di sapere quel che fa anche se ti trascura affettuosamente o affettuosamente ti allunga una zampa quando meno te lo aspetti e dunque riesce a sorprenderti con garbo. Lo fa con tale scivolosa noncu-

ranza che ti viene il sospetto che il "tuo" gatto sia dotato di ironia, e anche se non è cosi, il solo pensarlo significa che uno stile di vita più disincantato ed elegante te l'ha suggerito proprio lui.

Rimorsi

Fra tutte le infelicità possibili il rimorso è la più dura da sopportare; è un vulnus alla bella immagine che ci siamo creati, una lacerazione nel bozzolo dentro cui ab­biamo conservato il meglio di noi stessi per ricavarne rassicuranti opinioni sul nostro conto. Non di rado il ri­morso riguarda creature scomparse, o che difficilmente riincontreremo e ciò lo rende ineludibile e amaro. Tutta­via, guai a non averne. Significa che qualcosa proprio non va nella nostra mente o nel nostro cuore: da qual­che parte si annida una menzogna che ci sottrae urv lato della nostra umanità. Meglio convivere con i propri ri­morsi, colloquiare con essi, non respingerli ma piuttosto respirare dentro l'atmosfera dolorosa che li circonda quel soffio di umana pietà verso noi stessi cui abbiamo pur sempre diritto.

Ritratti

Un visitatore non privo di intelligenza, meno dotato di fair play, mi chiese, osservando un mio ritratto dipin­to ad olio, a quanti anni prima risalisse, con ciò denun­ciando apertamente i molti segni che il tempo aveva suc­cessivamente lasciato sul mio volto. Un ricordo perso­nale al quale ritorno spesso e volentieri: gli altri ci vedo-

no con occhi più severi, e questo è un punto di vista da non ignorare, ma alla fine trascurabile. Perché siamo noi

a guardarci allo specchio tutti i giorni, riconoscendo nel volto di oggi, pur segnato dagli anni, il bambino, il ra­gazzo 0 la ragazza di ieri, un'immagine che mantiene una sua continuità e mitiga i segni del tempo. Se non apparteniamo alla schiera dei maniaci che misurano ogni ruga con disappunto, è la visione d'insieme, la per­manente riconoscibilità e dimestichezza della nostra espressività quella che leggiamo nello specchio, anche con partecipazione e simpatia. Questo è il nostro vero ritratto, non immune da un pizzico di narcisistica follia. E con ciò? Nei segni del volto c'è tutta la nostra vita che non intendiamo rinnegare; chi sa leggere capirà, gli altri non contano. Non adontatevi perciò se qualcuno fa do­mande stupide davanti a una vostra immagine giovani­le, e non precipitatevi dal chirurgo per cancellare rughe che vi appartengono ben più in profondità dei primi strati epiteliali.

Rossini Gioacchino

II tenero e palpitante amore di Tancredi per l'amata e per la patria, il destino tragico di Semiramide alla fine di un lungo percorso di ravvedimento, la commossa re­ligiosità di Mosé e del suo popolo, l'ironia elegante del­l'italiana alle prese con il Bey di Algeri, le malizie di Ro-sina, il perdono di Cenerentola alle sorelle cattive, la fie­rezza di Ermione, bizze, languori e divertimenti di una compagnia di nobili scombinati che non arriverà mai a Reims per l'incoronazione del Re Carlo: Rossini ci ha regalato per ognuna di queste - e altre storie - una iniiv

terrotta sequenza di capolavori. Troppo, tutto insieme, nell'arco di un ventennio: bella musica, successo, dana­ro. Poi il silenzio, complice l'avanzare di una musica ro­mantica, bella ma strappalacrime. Diverso Io stile del pesarese: aveva dato un'anima al meglio dell'eleganza barocca, l'aveva resa libera dagli antichi schemi ma ave­va disciplinato sentimenti affetti passioni languori sof­ferenze dentro un linguaggio che era parossistico e mo­numentale, di una bellezza smagliante e contenuta in­sieme. Sono passate alcune generazioni prima che tanto ben di Dio riemergesse dal dimenticatoio da cui pochis­simo si era salvato. Chissà come sarebbe felice il Mae­stro se gli fosse data la possibilità di osservare gli italia­ni alla riscoperta della Sua musica, magari un po' indi­spettito che l'input sia arrivato dai musicologi d'oltre Oceano. Ma bisogna accontentarsi: la sua musica, così limpida e controllata, assolutamente priva di retorica anche quando si libra negli equilibrismi belcantistici più audaci, non assomiglia per niente al temperamento on­divago e indisciplinato dei suoi concittadini. Se dunque, oggi, crescono le schiere dei suoi ammiratori, significa che uno dei grandi del nostro paese fa tuttora scuola agli italiani, e lo fa a modo suo, rendendoli felici con la mu­sica.

Rumore

Ne viviamo così immersi che quasi non lo avvertia­mo più. Se invece lo percepiamo, e magari ci infastidi­sce, vuoi dire che apparteniamo ad una esigua minoran­za costretta a subire le prepotenze del popolo rumori-

sta, che nel nostro paese rappresenta una maggioranza niente affatto silenziosa e desolatamente inconsapevole.

Basti osservare l'occhio incredulo e allucinato che un rumorista riserva a chi gli chiede di abbassare il volume di una radio in un pubblico esercizio, l'allegria spensie­rata con cui giovani e ragazze chiusi dentro un'automo­bile con lo stereo a tutto volume si preparano ad un av­venire da sordi, la sventatezza di genitori in lotta con gli orari delle discoteche e incuranti della valanga di deci­bel che ubriaca e stordisce alla pari di tutti gli altri in­gredienti disastrosi del sabato sera. Al di fuori delle pro­prie pareti domestiche - se non siamo costretti a convi­vere con qualche rumorista - restano ben pochi i luoghi dediti al silenzio - le chiese, gli ospedali, le anticamere del medico e del dentista - luoghi di non continua, e per la verità non sempre augurabile frequentazione. Pazien­za!

Quanto all'educazione del popolo rumorista la tele­visione - pubblica e privata che sia - non aiuta; se si escludono i films e i dibattiti, i telegiornali e le informa­zioni sul tempo, il palinsesto è zeppo di trasmissioni te-stosamente gridate in cui si distribuiscono premi con urletti di gioia, mentre musicanti ballerini ed ospiti fan­no a gara con le interruzioni pubblicitarie per rianimare il volume di ascolto. Al confronto i commentatori delle partite di calcio e degli incontri di pugilato figurano da compassati gentlemen inglesi. Che fare? Emigrare verso i più silenziosi paesi del Nord dove già trent'anni fa le radioline erano off limits nelle piscine ma - sostengono i rumoristi - il numero dei suicidi è di gran lunga più alto? Non vi è dubbio che il rumore sia uno straordinario am-mortizzatore, supplisce ad un vuoto dell'anima che non sa o non vuole entrare in confidenza con se stessa. Non

per questo da felicità ma solo una lunga, stordita vacan­za da cui una volta o l'altra ci si dovrà pur risvegliare.

Se

Se non vi siete arricchiti riscuotendo tangenti in ve­ste di infedeli servitori dello Stato o disinvolti ammini­stratori pubblici - se non avete lucrato cinque paghe da fonti diverse e altrettante prebende usando una carica pubblica come rendita di posizione - se non vivete lus­suosamente fra salotti mondani e televisivi, barche, spiagge e alberghi esclusivi come succede al vostro ex compagno di scuola, a suo tempo notoriamente ritenuto un asino e oggi in carriera per meriti oscuri - se pagate le tasse, non evadete l'imposta di valore aggiunto, non avete costituito società con moglie figli e nipoti per de­trarre tutto il detraitele, non avete trasferito la residenza a Montecarlo dichiarandovi divorziato dalla cara metà allo scopo dì dimezzare l'imponibile - se pagate il bigliet­to senza cercare vie traverse a cinema, teatro, treno ae­reo autostrada alberghi eco - se emettete fattura o rice­vuta fiscale, pagate i contributi alla colf - se vivete in appartamento di proprietà avendo contratto regolare mutuo anziché ottenerlo in cambio di qualche illecito e vistoso scambio di favori, e se non l'avete avuto in affit­to a canone da Istituto Case Popolari avendo un reddito medio alto - se non vi siete prostituiti agli uomini delle pubbliche relazioni per ottenere vacanze gratis alle Mal-dive e propinato medicine placebo ai vostri mutuati meritandovi dalle case Farmaceutiche un safari sul Chi-ìimangiaro - se siete irrimediabilmente out da questi comportamenti, per piacere non fatesi venire complessi

di inferiorità, e soprattutto non sentitevi infelici. Essere poveri-onesti e sentirsi infelici di esserlo è il massimo delia disgrazia che vi può capitare. Allontanate da voi il dubbio maligno che i vostri comportamenti probi dipen­dano da una certa mancanza di fantasia, da incapacità vera e propria di servirsi delle moderne sofisticate for­me di trasgressione, e ciò vi renda virtuosi senza merito. Quand'anche fosse? Appartenete in ogni caso alla esi­gua fondamentale schiera che esiste per essere punto di riferimento per chi vuole credere che il mondo si regge sulla virtù, e che rappresenta un motivo di inquietudi­ne, seppur non frequente, per gli altri. Non nego che si tratti di una funzione scomoda, ma a prenderla per il suo verso se ne scoprono molti lati felici. Ne voglio ri­chiamare uno per tutti: chi non ha debiti con la propria coscienza è un uomo Ubero e può parlare di tutto e di tutti senza remore. E vi sembra cosa da poco?

Sempre

È il doppio di "mai", il bisogno di eternità racchiuso in una parola, Ufficialmente deprezzata e relegata negli angoli bui del melodramma o delle telenovelas, "sem­pre" si prende le sue rivincite quando nel privato dei più scanzonati detrattori dei sentimenti con la esse maiusco­la spunta il grande Amore; alzi il dito chi almeno ima volta nella vita non abbia detto " ti amerò per sempre". Una promessa per sempre - seppur attenuata dal buon senso anagrat'ico - " finché vita ci sostenga" è quella che si pronuncia in occasione del matrimonio religioso, ep­pure tutti sappiamo quanta precarietà si annida nelle pieghe di questo impegno solenne. "Sempre" è la nostra

diga contro i marosi della vita, l'argine che vorremmo opporre alla sua mutevolezza e anche alle nostre fragili­tà, è un atto di buona volontà con cui vorremmo asso­ciare la telicità al nostro destino, contando, anche, su una certa neutralità degli eventi esterni. Se questa neutralità viene meno, eccoci allo sbando. Come la formica che tra­scinava la sua mollica e noi, con gesto dispettoso abbia­mo disturbato il suo percorso. Anche lei, tuttavia, come noi, è pronta a riprendere il cammino interrotto. Sempre è una parola a ciclo continuo; un filo di speranza la tie­ne, a dispetto di tutte le sue battute d'arresto.

Settembre

Una passeggiata in un viale tranquillo e una sosta in panchina, magari ad occhi chiusi per difendersi dal sole; improvviso il suono di una foglia secca trascinata dal vento sull'asfalto ed è subito settembre. È la prima soli­tària sentinella dell'estate che si allontana, quella foglia, e irrompe rumorosa, in un silenzio che sentiamo diver­so e ostile: non cantano più le cicale, non volano cala­broni. C'è un'aria sospesa, di trapasso, e se non fosse per quella foglia vagante non ce ne saremmo accorti. La ma­linconia è la prima tentazione che ci nasce dentro, e per un po' va anche bene di tenercela; l'estate con i suoi co­lori, le sue dolcezze, le libertà che ci offre, ha ben diritto al nostro rimpianto. Ma non si indugi troppo, ci atten­dono altri piaceri, diverse e non meno suggestive gior­nate; tra poco le foglie gialle o rosse saranno tante a dare colori luminosi al viale della nostra passeggiata, e quan­do, con i primi brividi di freddo formeranno un tappeto

dorato fra i tronchi degli alberi, noi avremo già ritrovato la gioia del fuoco nel caminetto, se ne possediamo uno, e ci sembrerà carezzevole e appagante indossare tessuti morbidi e caldi per lunghi mesi dimenticati. Gli appun­tamenti con lui paese regionale e fantasioso come il no­stro saranno tanti: le sagre del vino, delle castagne, del tartufo, di sedano e salsiccia, di funghi e polenta. Affran­cati dai calori estivi riprenderanno vigore i balestrieri, i cavalieri delle antiche giostre medioevali, i musici, infa­ticabili ricercatori dei suoni alle corti rinascimentali. Si rianimeranno in tutta le penisola i mercatini di antiqua­riato, modernariato e robivecchi. Purtroppo, e questa è la zona d'ombra del nostro settembre, le cronache regi­streranno veementi discussioni venatarie fra artigiani, avvocati, eminenti ortopedici, piccoli impiegati, rispet­tabili commercialisti, insospettabili ginecologi cultori della "vita", a proposito dell'apertura più opportuna del calendario venatorio per ammazzare beccacce, tordi, le­pri e fagiani.

E se vi dovesse cogliere di sorpresa mentre vi affac­ciate di primo mattino sul consueto paesaggio di pietra della vostra casa il suono ostile della pioggia con quel che segue di traffico, smog e sporcizia bagnata sulle stra­de? Affidatevi per qualche minuto ad Antonio Vivaldi e a quello straordinario pizzicato di violini che egli ha de­dicato alla pioggia, nelle sue "Quattro Stagioni" e ricor­datevi che anche il prete rosso all'epoca, aveva i suoi problemi. A Venezia non lo trattavano benissimo, si mormorava sulle sue orfanelle-cantanti, non sappiamo se, ben lontana dai fumi industriali odierni, la laguna non mandasse cattivi odori per altri motivi. Insomma, non si può avere tutto, e sempre, dalla vita.

Sonno

Aprire gli ocelli dopo un sonno ristoratore è già un bel colpo dì vita; ci siamo ancora, la giornata è anche per oggi, nostra. Non importa se siamo di quelli che hanno il risveglio cattivo e in odio all'umanità; col passare del­le ore andrà meglio. A tipi così si può tuttavia consiglia­re l'adozione di un gatto per compagno di vita: sarà così discreto nel vigilare sul Loro sonno e sul loro risveglio, così disponibile a gesti affettuosi ma contenuti e pieni di estetiche invenzioni, nel momento in cui si aprono su di lui gli occhi dell'umano compagno, da facilitare il tra­passo daìla felice incoscienza del sonno alla spigolosa realtà della veglia. Qualcosa di elegante da guardare è un'idea vincente per un buon risveglio.

Prima dì uscire dal sonno bisogna tuttavia entrarvi, acchiapparlo non è sempre, e per tutti, facile. Fortunati quelli che vi si abbandonano senza problemi e in età adulta lo frequentano con la naturalezza dei bambini. Un po' scìocchini quelli che si impongono di dormire poco "perché il sonno porta via tempo alla vita". Un po' sciocchini e irriconoscenti verso i grandi benefici che agli esseri viventi ne vengono dal sonno, come ben seppe Macbeth dopo che aveva ucciso il re Duncano - "tu più non dormirai Macbeth! Macbeth non uccidere il sonno, il sonno dell'innocente, il dolce sonno che rimargina nel cervello i dolorosi solchi del pensiero e ricrea ogni dì l'uomo alla vita; che rinfranca l'esausto corpo dalle stan­chezze, che sana le piaghe dell'anima". - Una coscienza tranquilla, senza conti in sospeso è dunque il consiglio di W. Shakespeare per un buon sonno; in caso contrario ognuno si tenga il sonno o il "non sonno" che si merita.

Sud

Parola che evoca colori e profumi forti, luoghi di va­canza gioiosa e solare ma anche arretratezza economica impastata ad una grande storia e a lampi di intelligenza e cultura di straordinaria profondità. Ma ii Sud è ancora altro; lenta e discontinua crescita economica - meno vi­sibile in confronto a un Centro-Nord dei paese che "cre­sceva correndo" in virtù delle migliori condizioni di par­tenza. Per molto tempo, e tuttora, grande e insostituibi­le mercato di consumo per le imprese italiane forti ma non ancora mature per l'export. Per anni serbatoio di emigrazione di mano d'opera e anche di cervelli verso i luoghi dove si produceva ricchezza, oggi serbatoio di scorie e discariche abusive di quelle stesse imprese che cercano di ridurre al massimo lo scotto da pagare per attività produttive pulite e amministrazioni pubbliche che hanno lo stesso problema con i residui della vita col­lettiva. Patrimonio artistico e monumentale ancora tut­to da scoprire, oggetto di studio e di osservazione da parte di colti visitatori, a colmare i vuoti lasciati dal Va-sari che nelle sue Vite trascurò importanti eventi artisti­ci al di sotto del fiume GarigHano. Di tutta questa com­plessa realtà di un'Italia unita e diversa, ricca di intrecci e di connessioni si sa ben poco. La povertà di sfumature della comunicazione multimediale ha lasciato nell'ango­lo buio della disinformazione molte delle cose accadute negli ultimi quarantanni in questa patria dotata di tan­te diversità che pure l'arricchiscono. E nel frattempo una torpida cultura fatta di separatezza e di povero locali-smo sta allontanando da noi italiani una parte di noi stessi come altro da noi. Un'unità sofferta e feconda, che ha avuto grandi tessitori in uomini di qualità, viene mes-

sa in discussione da microideologie paesane che i mass media amplificano per propria ineluttabile inerzia. Chi non condivide gioca di rimessa e in salita; l'impatto si frantuma contro l'onda lunga multimediale che premia notizie insolite e diverse, senza riguardo alla qualità che vi circola. Per ora il Sud è perdente: ha nemici beceri e rumorosi, amici tiepidi e prudenti. Anche la diversifica­zione delle attività criminose che al Sud odorano ancora di sangue e violenza e al Nord si consumano nelle ban­che estere, nelle società off-shore e nei prestigiosi studi di consulenza, crea al primo una infausta privilegiata ri­balta. L'aspetto grave di un tam tam ideologico-razzista lasciato alla libera oscillazione del pensiero debole è il progressivo radicarsi dell'idea nella mente e nel costu­me, l'emergere di piccole quotidiane viltà che imbocca­no i sentieri della condiscendenza - prò bono pacis - o inclinano alla piaggeria compiacente. Questi percorsi precipitano alla fine nell'adesione supina al giudizio sul­l'uomo in virtù della sua provenienza geografica e terri­toriale e non del suo valore intrinseco. Vogliamo consen­tire a questa lue di marca balcanica di penetrare nella nostra cultura, privandoci di una lucidità mentale che solo alla ragione, e non al pregiudizio può richiamarsi? Vogliamo veramente diventare più poveri culturalmen­te, più incapaci di comprendere, e dunque più infelici?

Tardi

Non è parola indispensabile nel dizionario delle feli­cità e va usata con parsimonia. Salvo i casi più disgra­ziati - è tardi per Violetta Valery morente ricevere la let­tera di Giorgio Germont che scioglie gli equivoci della

sua love story - non è mai troppo tardi per cambiare qualcosa della propria vita, anche le cose più difficili", re­cuperare i brandelli di un amore che si era affievolito nella routine, iniziarne uno nuovo, dire no a cattiverie e prepotenze che ci hanno avvelenato l'esistenza, rappa­cificarsi, se opportuno, con un nemico, iniziare lo studio delle lingue urofinniche, leggere i libri trascurati nei pri­mi settantanni di vita. Clinicamente parlando, curare "tardi" un malanno non evita effetti letali, ma poiché la cosa non è certa vale la pena di tentare. "Tardi" prima che una parola è uno stato d'animo; per questo è bene diffidare, e ogni qualvolta siamo tentati di usarla do­mandiamoci prima se non stiamo facendo qualcosa con­tro di noi. Non sappiamo quanta vita ancora ci aspetta: se è poca non avremo il tempo di rimproverarci un ec­cesso di ottimismo che ci ha spinto a qualche nuova im­presa ai tempi supplementari. Ma immaginate quanto sia seccante aver rinunciato, a causa di quello stupido avverbio, a tante cose che ci potevano piacere e per le quali la sorte ci riservava ancora tante e tante ore di feli­ce godimento.

Televisione

È il mezzo di disinformazione più popolare non solo perché parla per immagini e dunque va sul facile. La sua grande popolarità nasce dal fatto che da a ciascuno il suo: le storie che "emozionano" ai patiti di telenovelas, la convinzione che la società in cui viviamo fa schifo ai consumatori di servizi giornalistici condotti dagli spe­cialisti delle disgrazie in diretta differita, la gaudiosa fi­ducia che la vita è tutto un gioco ai fedelissimi dei tele-

quiz. Qualche problema assilla gli affezionati ai telegior­nali : oltre alla noia di riascoltare alla sera i servizi già digeriti ad ora di pranzo resta l'incombenza di leggere i giornali il mattino dopo per sapere effettivamente come sono andate le cose.

Riesce difficile immaginare che la felicità o l'infelici­tà abbiano qualche attinenza con l'ingombrante scatolo-ne a colori. La sua funzione si esercita soprattutto negli angoli marginali della vita dì gruppo o individuale: col­ma i silenzi di incomunicabilità in famiglia, libera dalla cura dei figli genitori in carriera o superoccupati a far soldi, riempie le vuote ore dell'anziano accantonato, supporta fugacemente il lavoro della colf e della casa­linga, specie se in più esemplari presente in zone strate-giche della casa, offre qualche serio motivo per dormire, agli insonni. La televisione, insomma, è più che altro un pretesto per altre cose della vita.

Tuttavia, consideratevi felici se non siete teledipen­denti; felici di avere ancora pieno possesso del vostro cervello. Ma non sentitevi obbligati ad odiarla come usa­no certuni, desiderosi di essere arruolati nelle pattuglie degli intellettuali oltranzisti. Ricordatevi che negli orari più scarsamente frequentati dalle masse che fanno au­dience e share possono andare in onda programmi in­telligenti e magari anche divertenti. A qualche program­mista trasgressivo può, talvolta, sfuggire un po' di buo­na musica, e, in ogni caso, con la rinuncia al riposo not­turno sarete in grado di arricchire la vostra personale vi­deoteca del meglio di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Francois Truffali:, Cinger e Fred, Fellini, Don Siegel, Wo-ody Allen, Rossellini, De Sica, Bunuel, Visconti, e persi-no metterete in fila con devozione, fra i classici da ama­re, gli sceneggiati in bianco e nero della Rai anni '50 e

'60 che allora vi sembrarono tanto noiosi. Ma non im­maginavate quello che vi riservava il futuro.

Tempo

E prezioso, scorre via, non passa mai, non ce n'è mai abbastanza. Niente di più relativo del tempo, vissuto in modo diverso dalle persone, a seconda degli stati d'ani­mo, delle circostanze, degli avvenimenti, e dalla stessa persona avvertito in modo felice o angoscioso, o anno­iato. L'attesa di un incontro amoroso, di un appuntamen­to da cui ci si attende felicità vorrebbe tempi brevissimi, li precorre, li brucia in una infuocata anticipazione del­l'evento. Quel tempo è sofferenza e gioia insieme. Non si può dire altrettanto di quello trascorso nell'anticame­ra di un gabinetto di analisi nell'attesa di una gastrosco­pia. Il tempo scandisce gli avvenimenti, parcellizza la giornata ma è giusto nutrire qualche dubbio sul vero rapporto che fra lui e noi si stabilisce: dubbio salutare se rivolto a chiarire chi comanda. Perché il vero problema è definire la gerarchla fra noi e il tempo. Si, è vero, ci sono le cadenze esterne, il lavoro e i suoi orari, il cine­ma, le trattorie, i negozi, gli appuntamenti. Ma ci sono anche ore senza impegni precisi, giornate vuote, inter­mezzi. Se il "tempo" si è impadronito di noi e ci ha in qualche modo asservito tenderemo a scandire e ad or­ganizzare a tutti i costi questi spazi di libertà, essi ci ap­pariranno tempi morti da imbottire di cose, non daremo tregua alle ore, a noi e agli altri. Sarebbe bello aver ap­preso l'arte di dominare il tempo con la dolcezza del non fare, la lievità di un ozio che si nutre anche del nulla, la trasparenza del ricordo alternata alla contemplazione

delle cose che ci sfuggono dallo sguardo e dal cuore quando il tempo ci mette fretta e ci priva della gioia di vedere: i colori e le luci della nostra casa, lo sguardo sor­nione del micio che finalmente può accoccolarsi in tran­quillità sulle nostre ginocchia, tutto può diventare più godibile, anche i quadri che tanto tempo fa abbiamo ap­peso alle pareti e non li guardiamo mai, e la musica, ascoltata senza addocchiare l'orologio, e la conversazio­ne con le persone care. "Che hai fatto ieri?" vi chiederà qualcuno. Risponderete "nulla", e godetevi la faccia per­plessa, forse anche allarmata, del curioso.

Trevi so

La marca trevigiana - nei secoli luogo delle villeggia­ture mondane dei ricchi veneziani - sarebbe terra delle più gradevoli e accattivanti d'Italia se non fosse abitata da una elevata percentuale di leghisti per chilometro quadrato. Succede perciò, al turista in esplorazione del­le sue collinari bellezze e alla ricerca delle fastose ville venete, di incontrare inopinatamente cartelli ammonitori "qui siamo nella repubblica veneta del Nord", issati a mo' dì segnaletica stradale ai crocicchi, o di veder im­brattate le mura dirimpettaie di qualche museo di buo­na frequentazione da scritte inneggiami al federalismo fiscale, una versione "politica" del detto "moglie e buoi dei paesi tuoi" trasformata in "tasse e buoi dei paesi tuoi". Si vorrebbe un clima più disteso da luoghi cosi" ameni, ma pazienza! Nessun luogo è perfetto; infastidi­sce un po', affrontando il leghista a tavola (c'è una trat­toria a Treviso dove si mangia a stretto contatto di go­mito con illustri sconosciuti, come dal mitico "romano"

Cesaretto, o ironica vendetta di indesiderate sinergie) scoprire che tanta voglia di separatezza dal resto d'Ita­lia alberga nella mente di gente che spesso non ha viag­giato al di sotto del fiume Po, parla di un Sud che non conosce e inveisce contro "Roma ladrona" avendo sot­tobraccio il giornale della provincia dalle cronache zep­pe di tangentopoli locali. Detto tutto ciò si deve a Trevi-so un omaggio particolare; è una città deliziosa. 1 due fiumi che la attraversano - il Sile e il Cagnan - creano angoli suggestivi e l'acqua che scorre fra quinte di mura antiche e spesso lambisce salici e altro romantico verde la rende viva e gioiosa. Le sue facciate dipinte, negli esterni di alcune case, i suoi barbacani, specie di con­trafforti che ombreggiano i vicoli, il suo caratteristico mercato, le sue bellezze nascoste - un Tiziano nel Duo­mo, un Giorgione al Monte di Pietà - e quelle più in vi­sta, le splendide mura lungo canali, opere di grande in­teresse anche idraulico, un delizioso teatro ottocentesco dove si fa musica sinfonica, lirica, prosa, con gusto e qualità - tutto congiura perché il visitatore, anche occa­sionale desideri ritornare. Depone a favore di uno o più ritorni la cantilenante gentilezza dei suoi abitanti, la buo­na cucina, il prosecco, la cordiale ospitalità di alberghi e trattorie. Tutto ciò era parte della felicissima immagine di questo luogo prima del leghismo e si pensa che conti­nuerà ad esistere anche nell'era postleghista.

Trieste

Una città bella per il suo mare, le colline, i colori del­l'altopiano carsico e il freddo nitore che ne disegna i pro­fili quando è attraversata dai venti di nord-est. Poiché

case e palazzi rispecchiano Jo stile eclettico viennese e ancora in molti interni domina il Biedermeier della buo­na borghesia austriaca, aleggia sulle sue pietre il fanta­sma della mitteleuropa e i suoi abitanti immaginano di esserne gli eredi. Del cosmopolitismo degli anni di de­dizione all'Austria e delle leggi teresiane si sono conser­vate alcune splendide chiese delle religioni ebraica, gre­co ortodossa, serbo ortodossa, anglicana, e il gran nu­mero di lapidi funerarie dedicate a cittadini di ogni na­zionalità ospiti nel civico cimitero. Quella spinta ad al­lacciare rapporti commerciali con il mondo che segnò l'epoca dei pionieri della navigazione e delle assicura­zioni, oggi si cimenta con un turismo di consumo mordi e fuggì dei compratori dei paesi dell'est che l'arricchi­sce e la devasta. I rapporti con la madrepatria sono que-ruli e tempestosi, l'incomprensione conclamata e unidi­rezionale, vittimistica e priva di quella curiosità intellet­tuale per il mondo al di là del Timavo che spinse i padri dell'irredentismo a partecipare della vita culturale di Firenze, Torino, e altre città italiane. Trieste è la mia città ma non posso condividere quel sottinteso inespresso orgoglio che la spinge a chiudersi nella presunzione di una superiorità morale; dalle nebbie della memoria rie­mergono dolorose e insoddisfatte domande sulle com­plicità dell'unico campo di sterminio nazista in territo­rio italiano, i silenzi che hanno coperto a lungo la verità sulle foibe, luoghi della eliminazione fisica anche degli antifascisti triestini da parte dei "fratelli" confinanti del­l'est, le ambiguità dei rapporti con il mondo slavo più segnate dall'affarismo o da altre convenienze che non improntate a chiarezza di idee. Questo luogo dove sono nata non mi possiede più, non sono qui le mie radici, anche se a queste radici devo riconoscenza e felicità per-

che le inquietudini che mi sono portata dietro, andan­domene, non sono state inutili per la vita. Mi da emo­zione ripercorrere i luoghi, rileggere i poeti e i letterati, sentire i profumi della buona pasticceria ungherese che fiottano dai retrobottega dei caffè storici, l'odore acre che il mare stempera sugli scogli bruciati di sole e salsedine, l'accoglienza odorosa di legno alle pareti e di minestre slave e tedesche tipica delle trattorie del Carso. 1 miei concittadini li vedo in piazza dell'Unità d'Italia, o lungo lo storico viale XX settembre in un affollamento festoso e domenicale, colorati e vivaci, ma anche straordinaria­mente immobili, come in certi dipinti di passeggiate un po' crepuscolari di Giuseppe De Nittis, intenti a parlare della buona musica ascoltata, dei buoni libri letti, dei viaggi fatti o da fare, dell'inno del generale Radestky, se sia meglio eseguito nel teatro Domenico Rossetti, in cit­tà, o alla Grosser Musikvereinssaal di Vienna al concer­to di Capodanno.

Tristezza

Se avete un buon motivo per essere triste non cercate vie di fuga. Se un rimorso vi opprime, una perdita vi addolora, una sconfitta vi brucia, far finta di niente non serve. Incolpare altri, rivoltare la frittata per dimostrare che le cose stanno diversamente prelude a false consola­zioni di breve durata. Meglio una vera tristezza vissuta fino in fondo. Compatitevi un po', coccolatevi, raccon­tatevi qualche cosa bella che vi è accaduta in passato. Insomma, aiutatevi ma non raccontatevi bugie: vi cacce­reste in un vicolo cieco e perdereste una buona occasio­ne per diventare più maturi e più forti.

Uccelli

II canto del merlo da suggestioni diverse a seconda delle ore in cui lo si ascolta: al mattino prestissimo, quan­do il giorno stenta a disegnare la luce sui profili d'om­bra delle cose, il canto si leva estenuato e dolorante, qua­si la fatica di uscire dalle tenebre possa ispirare note così dolcemente notturne. A fine giornata gioia e malinconia si fondono nei colori spesso dorati e luminosi del tra­monto; il canto del merlo entra nel coro delle voci, le esalta e si distingue, celebra una conclusione della gior­nata non senza una vena di tristezza.

Le rondini: che dire di quel loro volare velocissimo e stridente che occupa l'aria, unisce cielo e terra in una palpitante sarabanda che mette allegria anche nell'im­brunire delle più calde giornate d'agosto?

La taccola canta con suoni brevi e timidi. I passeri con la loro coralità, anche un po' fastidiosa, assordano i viali alberati - e sporcano - ma certo ridanno un volto umano anche ai luoghi più anonimi delle città. Gli usignoli ri­camano ì silenzi, instancabili, con le loro agilità rossinia­ne. I gabbiani emettono suoni rauchi e gravi, e il loro volo, ampio e silenzioso rievoca il mare anche quando ne sono lontani.

Alcune di queste creature alate segnano le stagioni; a Settembre, in riva al mare le vediamo partire a gruppi, contigui e cadenzati: il volo è lento di chi sa di avere tan­ta strada da fare, e triste per la premonizione che non tutti ce la faranno.

Felice chi coglie questi frammenti di vite altrui, chi si scopre sensibile agli accadimenti di altre creature, chi sa, per ascoltarle, far silenzio nel rumore della quotidiana futilità.

Vecchiaia

Non vi chiedo di dimenticarvene, ma se avete rag­giunto un'età degna di questa parola lasciate ad altri la cattiva abitudine di usarla con troppa frequenza. Non rispondete "da poveri vecchi" a chi vi chiede come sta­te. Poveri, perché? Ho conosciuto dei trentenni e qua­rantenni che sono passati a miglior vita quando erano convinti di averne davanti ancora tanta da vivere. Non sono stati, costoro, molto più poveri di voi? Fate un buon uso del vostro passato e dei vostri ricordi? O appartene­te a quella specie di individui pervicacemente attaccati alle proprie disgrazie e incapaci dì ricordare le cose buo­ne vissute? Non sono le rughe del volto ma quelle del­l'anima che svelano la vostra vera età; ho conosciuto gente di vent'anni che era già vecchia per l'incapacità di emozionarsi alla vita e alle sue sorprese, e ottantenni vi­vaci e creativi.

Cancellate dalla vostra mente tutte le credenze e i luoghi comuni che la coscienza collettiva si trascina, pi­gramente, da secoli, sul conto della vecchiaia, senza nep­pure un po' di rispetto per la sua relatività; quando sì era "vecchi" qualche secolo fa, e quando oggi? Ricorda­tevi che molti dei sentimenti negativi che vi turbano pen­sando alla "vostra" vecchiaia, sono indotti dall'esterno, lì avete succhiati con il latte materno, interiorizzati sen­za volerlo mentre giocavate meditabonda sulle ginoc-chia della vostra nonna. Liberatevi da questi fardelli e navigate sgravati da tanto peso, nella vostra quotidiani­tà che può riservarvi sorprese, incontri, momenti di gio­ia, anche dolori e malinconie, anche curiosità e dolcez­ze. Come sempre. Sta a voi decidere che il tempo ha cam­biato ma non distrutto il vostro rapporto con le cose.

Vetrine

Esercizio gradevole e talvolta doloroso: consumare con gli occhi tutte le cose belle esposte nelle vetrine dei negozi. Ve ne sono di utili e irraggiungibili per il costo eccessivo. Altre, più a portata delle nostre tasche presen­tano spesso un alto tasso di "futilità"; si possono acqui­stare ma non servono a mente: sono solo bellissime!

Le vetrine che addobbano e illuminano le strade del­le nostre città sono qualcosa di più di un fatto commer­ciale; la dovizia dei beni esposti, l'accattivante presenta­zione della mercé giocata su mille astuzie di ricerca este­tica, tutto ciò è il volto verace di un universo potenziale, del nostro mondo dì "cose" che sono a portata degli oc­chi e quindi si possono "avere". È il passo successivo, quello che trasforma questo rapporto virtuale con la grande fiera del consumo in un bisogno reale, a procu­rarci il morso doloroso della privazione: ci assale il dub­bio che quelle cose se esistono si "debbano" avere. È così che si entra nel grande fiume emblematico del possesso conte "status" e ci si intruppa nel gregge degli oltranzi­sti del consumo. Si parte con lo zainetto firmato il primo giorno di scuola e si finisce con l'affidare ad un orologio da otto milioni l'autocertìficazione di un tocco di classe. Sempre più tristemente insoddisfatti, sempre più affan­nosamente in credito rispetto a nuove mete. E la felici­tà? Abita qui saltuariamente: trasloca da un oggetto al­l'altro, subisce sfratti repentini e dolorose cadute. Insom-ma è un po' acciaccata.

Viaggiare

Ecco un piacere dei più faticosi e affascinanti; sceglie-

re, decidere, prenotare, munirsi di valuta e coupons se la destinazione è oltre confine, preparare il bagaglio, di­sporre quanto necessario per mantenimento e cura del gatto di casa, che non parte, provvedere a patente e assi­curazione internazionale se la destinazione è Europa in automobile, studiare la guida a destra se ci si avventura nel Regno Unito, armonizzare il guardaroba da grande freddo con gli abiti da sera se si parte per San Pietrobur-go con prenotazione al teatro Marinsky, sottoporsi a vac­cinazioni per viaggi esotici, sfogliare manuali dì bon torv della marineria, sia che ci si imbarchi su navi crociera sia che si affronti il mare a bordo di qualche cargo di lus­so. Il viaggio in aereo presuppone individui forti, incu­ranti del pericolo, pronti a sfoderare statistiche che di­mostrano l'assoluta sicurezza del volo rispetto alle car­rette a quattro ruote che rottannano in continuazione sul­le strade del mondo. Il viaggio in pullman si addice a indivìdui non affetti da nevrosi del tipo - guido solo io -ma anche dotati di temperamento mite, disposti a sop­portare tutte le soperchierie cui si può andare incontro durante lunghe trasferte a contatto con la collettività del viaggio organizzato. Il treno è per i saggi e i goduhosi: non c'è fretta di arrivare, il paesaggio che cambia prepa­ra la meta, in treno si dorme si legge si pranza si lavora o si gioca con il personal computer; il massimo è poter spendere abbastanza per regalarsi l'emozione del-l'Orient Express. Gli incontri sono brevi, se insoddisfa­centi si neutralizzano con gli auricolari e la musica pre­ferita; meno impegnativi della vita in barca con gli ami­ci, meno noiosi delle quotidiane cortesie da scambiare con il commissario di bordo o l'animatore delle serate danzanti sulla nave.

Se questo breve escursus nel viaggio, seppur virtua­le, vi ha stressato ed ha rivelato a voi stessi un tempera­mento contemplativo e sostanzialmente pigro non allar­matevi: libri, videocassette, riviste di turismo, foto e ci­neprese di amici che vi hanno preceduto sono in grado di soddisfare ogni vostra curiosità su! mondo e se di vostro ci mettete un po' di fantasia il risultato può esse­re gradevole. Viaggiare "per vedere" si può senza met­tere il piede fuori di casa, con qualche emozione in meno e un gran risparmio di soldi e fatica. Viaggiare "per co­noscere" è altra cosa; comporta i tempi lunghi dei viag­giatori di un tempo e non si concilia con le proposte "mordi e fuggi" delle agenzie turistiche. Viaggiare per lavoro è perfetto; sì va spesati, o si detrae dai conti so-cietari, e si impara di più. Viaggiare per esibire i timbri sul passaporto è l'ultimo dei desideri di una persona in­telligente, e voi cari miei lettori lo siete e dunque scusa­temi il solo pensiero. Andare alle Bahamas ignorando il museo di Capodimonte, Palazzo Fitti, la cattedrale di Otranto, il museo Egizio di Torino, il Parco nazionale d'Abruzzo, il Delta del Po, Mantova, le Cinque Terre, Martina Franca e la Valle dei Trulli, ecc. ecc. è comporta­mento provinciale e analfabeta. Si possono evitare an­che queste limitate ma pur sempre faticose escursioni dentro i confini nazionali senza intaccare il proprio po­tenziale patrimonio di felicità? Prima ancora è bene chie­dersi: viaggiare aiuta ad essere felici? La risposta è del tutto affidata alla propria esperienza personale. Ema-nuele Kant non si mosse per una vita intera, o quasi, dalla città natale di Kònigsberg e dentro questa sua se­dentarietà costruì un complesso sistema fiiosofico, fonte di ricchezza per l'umanità e di angosce infinite per stu­denti di tutti i tempi. Fu egli felice? Marco Polo, Cristo-

foro Colombo, Wolfgang Goethe, Lorenzo da Ponte, Gia­como Casanova, Stendhal, viaggiarono molto. Furono essi felici?

Vino

L'ubriacatura di Noè - cui tanto si deve per la storica scoperta di un uso esilarante del vitigno - perseguita davvero come biblica maledizione il vino, e perciò bere succo d'uva in vario modo elaborato è piacere contro­verso. Considerato quasi vizioso, se si supera la dose medicamentosa di "un" bicchiere a pasto, non si conqui­sta la deliziosa ebbrezza che vi si accompagna se si ecce­de da quella misura omeopatica, senza passare attraver­so una piccola ma dolorosa crisi di coscienza; è la vergo­gna dei Patriarca che ancora ci opprime e trasforma la gioia del bere in un emblematico "prezzo da pagare" per approdare ad una felicità innocente. Le raccomandazio­ni che amici premurosi e parenti impiccioni ci riservano se esageriamo con le calorie a tavola si trasformano im­mediatamente in riprovazione sociale se siamo sorpresi al terzo bicchiere di vino. "Felici di bere" diventa poco meno di un inno alla droga tacitamente concessa a indi­vidui dediti a piaceri proibiti. Il vino è un caso da ma­nuale dell'umana incongruenza: lacci e lacciuoli fiorisco­no intorno al suo consumo proprio nel momento in cui sempre più elaborate e raffinate tecniche di produzione vanno in soccorso all'acino per ricavarne il massimo di profumo, sapore, retrogusto, e leggi importanti, nazio­nali e regionali, ne tutelano la qualità. Con la denomi­nazione a origine controllata e garantita il nostro paese -quantitativamente ai primi posti nel mondo fra i produt-

tori di vino - sta raggiungendo livelli di produzione ec­celsa anche al di fuori delle aree di tradizionale coltiva­zione; Umbria Marche Puglia Sicilia si affacciano oggi alla ribalta della qualità accanto alle già affermate canti­ne Toscane Piemontesi e Venete. Non abbiamo ancora conquistato l'abilità tutta francese di esaltare il prodotto ma certo non dobbiamo invidiare nessuno per quello che offriamo al consumatore. Non vi sembra delittuoso vie­tarci il piacere di scegliere, degustare, confrontare, cen-tellinare tanta grazia di Dio? La recente scoperta di qua­lità medicamentose proprie del resveratrolo contenuto nel vino rosso ha aperto uno spiraglio alla nostra felicità di amanti del calice pieno. Ma dalla vita vogliamo di più: che ci siano concessi senza visti sanitari i deliziosi piace­ri del gusto sapido fruttato asciutto profumato, la con­templazione tutta estetica del colore paglierino dei bian­chi ecrù che popolano la penisola. Se poi si dovesse sco­prire che fanno bene anche all'umore, e quindi alla salu­te, tanto di guadagnato.

Zanotti Bianco

"È l'ora buia in cui i primi rialzi del terreno diventa­no l'orizzonte, e l'orizzonte lontano scompare nel vuoto notturno. La testa della colonna scompare rapida verso la valle già scura. Non paiono uomini che abbiano sop­portato giornate intere di privazioni e di fuoco. Ma d'un tratto un brusco movimento d'arresto. Una granata scop­pia poco lungi aumentando la confusione. < avanti, ag-gimo a morire qui come li surcì fritti?> Tutti s'accendo­no d'ira senza capir bene per che cosa. - Chi ha dato l'alt - chiedo correndo innanzi - chi ha dato l'alt?- Signor tenente....dice la voce sperduta di un caporale...Che cosa

dal Diavolo...> ci hanno scoperti signor tenente? - Ma che scoperti, se fa più buio che in una tana di talpe , avanti, su, coraggio. - E intanto il sudore fieli ammollire sui corpi i panni irrigiditi dalla pioggia e dal fango, irri­ta e piaga le carni aride. Ultimo, dietro le barelle, da cui emana un acuto odore di cadaveri in corruzione e di cre-olina, sento venire a me quel muto supplizio....si sale e si scende e si sale nella notte. ■< Tenente, fammi riposa­re». Avanti, non è possibile fermarsi. «Tenente ho tutti i piedi tagliati» - «Se ti fermi ti dorranno di più, avanti, coraggio!». Piana di Casera Magnaboschi, 1916, prima guerra mondiale, diario del tenente Umberto Zanotti Bianco, volontario e medaglia d'argento, piemontese, nato a Creta nel 1889 da padre Console d'Italia e madre inglese, morto a Roma nell'agosto del 1963. Un italiano quasi dimenticato con una vita ricchissima di attività in difesa degli umili e dei perseguitati che lo ha portato a conoscere a fondo il nostro Mezzogiorno ma anche a per­correre migliaia di chilometri lungo i confini più caldi della persecuzione polìtica, in Russia, in Polonia, nei Balcani. Alia Voce dei popoli, rivista da lui fondata, col-laborarono esuli di molte nazioni e uomini di fama mon­diale. Quest'uomo dalla figura alta e ieratica - piena di fascino fino agli ultimi anni di vita, il tenente che a detta dei suoi soldati "pareva un cero di catacombe e teneva li nervi di ferro" - ha agito con incredibile concretezza nel­le sue missioni umanitarie; soccorritore in prima linea

.sso-

nel terremoto di Messina del 1908, fondatore dell'A' ciazione per gli Interessi del Mezzogiorno subito dopo un viaggio di alcuni mesi in Calabria per un'inchiesta

su quell'Italia ancora sconosciuta dopo l'Unità, con la creazione di molte scuole nelle regioni meridionali; ne­gli anni successivi alla rivoluzione russa organizza i co­mitati per il soccorso ai bambini russi, quello di soccor­so agli intellettuali, porta viveri nella Russia sovietica colpita da carestia nel 1922 con un treno tutto suo, e in tasca un dizionarietto tascabile. Accanto all'azione uma­nitaria, quella culturale: fonda, per sostenere e incorag­giare importanti scavi archeologici, la "Società Magna Grecia" ed egli stesso conduce, con pochi mezzi, scavi nella piana di Sibari che studi recenti e condotti con ben altri mezzi, confermeranno di grande rilievo storico per l'individuazione dei siti delle città di Sibari e Turi. Fon­datore, con altri, dell'Archivio storico per la Calabria e la Lucania. Dopo l'arresto e l'internamento da parte del fascismo riprende le sue iniziative, alle quali se ne ag­giungono altre, la fondazione dell'Associazione Italia Nostra, la Presidenza e la riorganizzazione della Croce Rossa Italiana, la nomina, da parte del Presidente Einau-di, nel 1952 a Senatore a vita "per avere illustrato la pa­tria con altissimi meriti nei campo sociale e scientifico". Le sue biografie ufficiali non ne parlano ma io che ho avuto modo di esserne testimone diretta voglio ricorda­re che quest'uomo dal passato così illustre accettò di fon­dare - e ne fu Presidente attivo e partecipe - l'Istituto per gli Studi dei Servizi Sociali insieme ad uno sparuto drap­pello di giovani che altro non avevano ad accreditarli che la serietà dell'impegno scientifico nella ricerca sociale e nel social - work in un momento - correva l'anno 1960 -in cui la società italiana era ancora assai lontana da que­ste problematiche. Mi sembrò allora un gran bel gesto, ma anche una continuità di quella vocazione alla con­cretezza e all'utilità sociale, sola misura nelle scelte di tutta una vita. Cercasi, al presente, personaggi di questa

sensibilità e statura. Voglio aggiungere una nota indi­screta a questa sommaria scorribanda nella biografia di Umberto Zanotti Bianco: la leggenda gli ha attribuito -nel turbinio di questa vita dedicata al prossimo bisogno­so dì aiuto, ed alla creatività culturale, - un' altrettanto intensa e ricca vita sentimentale. Non so se la leggenda sia veritiera, ma è bello crederlo; chi ha saputo spender­si molto per gli altri deve aver potuto suscitare intorno a sé moti di generosità, dovizia di affetti, echi di felicità.

Zeno Zencovich Livio

Tutti i pomeriggi alle ore 17 Livio Zeno preparava secondo il rito più ortodosso una tazza di thè che veni­va servito da lui stesso a se medesimo; la poltrona eia comoda, la musica quella della quinta rete di filodiffu­sione Rai - Mozart, Handel, Vivaldi, Monteverdi - sir Ne-ville Marriner fra i suoi direttori preferiti, ma anche John Eliot Gardìner. Il luogo - il soggiorno ampio di una villa affacciata sul mare di Trieste - era difeso dal sole estivo da una cortina d'alberi; un po' freddino d'inverno, a cau­sa di una caldaia rotta e mai aggiustata, profumava di legna bruciata per la combustione difettosa di una di quelle antiche stufe di maiolica che ancora illustrano con la toro avvenenza le case sette-ottocentesche della città adriatica. Si era fatto silenzio nella vita di Livio Zeno che era ritornato nella sua città natale dopo anni intensi di attività diplomatica e giornalistica ; con il Ministro Sfor­za nel periodo più difficile per la diplomazia italiana che usciva sconfitta dalla seconda guerra mondiale, con la direzione della Voce Repubblicana, altri incarichi diplo­matici in. Medio Oriente. Un silenzio contrappuntato da

telefonate con il mondo: Zurigo, Vienna, Roma - da let­tere e brevi biglietti - con quel gusto tutto ottocentesco di mantenere viva anche per iscritto una perenne con­versazione con gli amici lontani - e poi il piacere coltiva­to con semplicità, di intrattenere gli ospiti di passaggio in città in conviviali chiacchiere sempre punteggiate da sue domande che erano un pò garbate provocazioni sul presente politico e culturale. Livio Zeno rifuggiva con civetteria dai ricordi del Suo passato, ma se qualche ospi­te ve lo riconduceva si schiudeva in salotto un mondo ricco di memorie, squarci di vita, aneddoti, epistolari, vecchie polemiche politiche dell'Italia postfascista. L'ele­ganza del vivere con discrezione - questo è oggi, il ricor­do di Livio Zeno, che ci ha lasciato nel 1994, abbando­nando a se stesso un mondo in preda aLl'accattonaggio massmaediologico, invadente e senza pudore. Ciò che ferisce della febbre da palcoscenico televisivo - già en­demica negli anni '80 ma esplosa del tutto nei pessimi anni '90 - è il contagio diffuso in tutti gli strati sociali, attraverso giochetti e gruzzoletti destinati a premiare pietose comparsate, lo straniamento di ogni stile di vita degno di questo nome. Quanto agli uomini pubblici il loro arrembaggio non conosce soste, né si placa negli anni; una volta affermato il teorema dell'esistenza di se stessi sub specie televisiva ci si assoggetta alla quotidia­na volgarità del mezzo, ed è per sempre, poiché, altro modo di esistere, fuori della ribalta, non c'è. Grazie dun­que a Zeno e alla sua lezione di vita. Non so se egli per­sonalmente sia stato felice: difficoltà matrimoniali e fa­miliari non sono mancate alla sua ottantennale umana esperienza. Certo quel suo garbato modo di offrire agli altri occasioni di felicità, quella sottile, pacata ironia del vivere i giorni dell'ombra, dominano la bufera confusio­nale del nostro presente con stile inconfondibile. ■

POSTFAZIONE

-Antere. Caro lettore, ho deciso di venire incontro alle sue iniziali obiezioni. Non nego la validità delle ragioni che mi hanno spinto a questa fatica, soprattutto l'impe­gno per aiutare i miei lettori a scoprire tutti quei motivi di felicità che sono a portata di mano, vicini e spesso tra­scurati, o sottovalutati. Riconosco tuttavia che l'ambizio­ne era eccessiva e avrebbe richiesto un dizionario enci­clopedico. Perciò le propongo un titolo più "rilassato" : Dizionario delle felicità.

-Lettore: Mi sembra una buozia decisione; in fondo le felicità, a cercarle come ha fatto Lei dalle quotidianità della vita^ sono tante e non sì esauriscono mai. Impossi­bile dunque ingabbiarle in una sola, solenne e impegna­tiva parola al singolare.

La ringrazio della comprensione, e anche di avermi
letto con attenzione critica. Se, e quando darò alle stam­
pe il libro, sarà bello aver avuto già un lettore e in segui­
to non mi dispiacerebbe se il mio Dizionario diventasse
un best-seller; sarebbe questo un buon motivo di felici­
tà. Ma intanto, Lei che lo ha già letto, lo consigliere ai
suoi amici?

Non so. Non vorrei che Lei, alla fine, si monti la te­
sta, e magari diventi infelice.




Questo volume

chiuso in tipografia

ne! mese di ottobre 1997

e stato impresso

negli stabilimenti di arti grafici le "Tk'iume" per conto di Piero Lacnitn Editore in Mnndurin-Rouitì


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Accesari: 4577
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